mercoledì 28 dicembre 2011

Nomi bizzarri al supermercato: dalla pasta d'acciughe "Balena" ai Vini Velenosi


Chi tiene d'occhio i nomi e il naming è un deformato. Io almeno tendo ad esserlo e aggiusto il tiro dicendo che parlo a nome mio. Non professionalmente deformato: deformato e basta! Così mi capita a volte di vagare per le corsie dei supermercati e, anzichè provare a fare come Allen Ginsberg in A Supermarket in California o ricordarmi che sto cercando il filo interdentale, getto occhiate a etichette, colori, involucri, nomi.

Capita di fare incontri con nomi strani, o quantomeno bizzarri. Recentemente i miei occhi si sono posati sulla pasta d'acciughe "Balena" e su un'azienda di vini denominata "Velenosi". Non conoscevo questi nomi d'azienda, da quel che ho intuito sono prodotti da intenditori, con buoni/ottimi posizionamenti. Mi ha incuriosito il nome Balena tra virgolette, mentre nel caso dell'azienda vinicola ho notato la registrazione del dominio internet con il nome-aggettivo anteposto a "vini": velenosivini.com (in effetti meglio così che vinivelenosi.com).

Mi piace registrare questi casi per un motivo molto semplice: relativizzano e fanno capire perfettamente, in due secondi, con buoni esempi, l'importanza del nome all'interno del costrutto teorico di brand. Se è vero quel che diceva Mark Twain, cioè che nulla è più noioso di un buon esempio, è importante, parlando di brand, capire l'importanza relativa e non assoluta di tutti gli asset (naming, logo, design, advertising, packaging, web, presenza sul punto vendita, pricing ecc.). Ci sono dei casi in cui un'operazione di naming o re-naming si rivela importante, magari più importante della cura profusa nello sviluppo dell'identità visiva, mentre ci sono dei casi in cui l'importanza del nome è del tutto relativa. Il nome è un asset dell'azienda e come tutti gli asset può/deve essere gestito. Ce lo ha spiegato largamente anche Jean-Noël Kapferer.

domenica 18 dicembre 2011

Io non mi chiamerei Cell8

Nella zona dove abito i cognomi che finiscono in -otto sono abbastanza frequenti. Se io dovessi denominare una mia azienda, anche senza inseguire la costruzione di un brand, poniamo ad esempio una piccola azienda di trasporti internazionali, eviterei accuratamente il giochetto di chiamarla Cell8. I nomi sono destinati a viaggiare (se poi l'azienda è un'azienda di trasporti nella regione cerniera tra Ovest e Est d'Europa a maggior ragione). Il giochetto di usare la cifra al posto di "otto" è però una piccola trappola quando un nome valica un confine. Lo so che è di una banalità disarmante quello che scrivo, ma il rischio è che il mio nome prenda una forma e un suono diversi a seconda del paese in cui mi trovo. Da un lato, con la presenza di un naming alfanumerico, guadagnerei in iconicità del nome, ma dall'altro genererei sicuramente confusione. Il naming di un'azienda può e dovrebbe servire a evitare a monte qualsiasi tipo di confusione.

giovedì 15 dicembre 2011

Naming e fonosimbolismo #2: Vibram Fivefingers. (E non sempre il naming descrittivo va male...)

Sembra stia crescendo il barefoot running. Ovviamente non si tratta di una corsa a piedi scalzi, ma di un nuovo modo di intendere le calzature per la corsa: suola ridotta ad uno strato sottile (anti-chiodo ovviamente!), ricerca di una sensazione simile a quella che si potrebbe provare correndo davvero a piedi nudi. Abbiamo un po' tutti in testa Abebe Bikila alle Olimpiadi di Roma del 1960.


Non mi addentro sui benefici biomeccanici, fisiologici o psicologici ecc. che questo tipo di corsa può portare. Non è il mio mestiere, anche se inviterei ad avvicinare il fenomeno con la prudenza dovuta (il barefoot running si pone in aperta opposizione ai principi di ammortizzamento che regolano tutte le altre calzature da corsa, gioca in questa opposizione). C'è ovviamente molto marketing attorno a questo filone, al quale tutti i grandi colossi della corsa stanno dedicando attenzione e nuovi prodotti (Adidas, Asics, Mizuno, Nike, Saucony con casi più piccoli come Terra Plana).

Mi soffermo però sul prodotto più curioso di questa "famiglia", le Vibram Fivefingers che vedete bene in foto. Una calzatura con cinque dita che la nota azienda, specialista nelle suole, ha presentato per la prima volta una manciata di anni fa, oggi un prodotto imitato, tanto che mi è capitato di vedere una gustosa pagina pubblicitaria dove il prodotto in questione alza il dito medio per salutare tutti gli imitatori...


In contrapposizione a un design quantomeno unico, iconico e sfrontato, questa calzatura presenta un nome apparentemente descrittivo. Chiunque abbia letto libri sul naming (io stesso lo scrivo nel mio), avrà imparato che è bene sempre fuggire nomi che si limitano a descrivere il prodotto (e Fivefingers fa questo, descrive). Tuttavia a me piace ricercare quei nomi particolarmente descrittivi che funzionano, nonostante tutto. Eccezioni che confermano la regola, insomma. Il nome Fivefingers, con quella allitterazione e rapidità di "f" è un buon nome per un prodotto davvero innovativo (quante aziende avranno pensato un prodotto del genere ma non hanno avuto semplicemente il coraggio di svilupparlo, in fin dei conti si parte dal dato basilare, l'anatomia del piede). Nella sua lunghezza ma velocità di "f", "v" e "e" (vocale "veloce" secondo gli studi di fonosimbolismo), e pur nel suo essere estremamente descrittivo, questo nome funziona.

Ma per concludere, guardiamoci il vero barefoot running...


martedì 13 dicembre 2011

Naming e fonosimbolismo #1

Nell'immagine avrete riconosciuto il famoso esempio di Wolfgang Kohler, celebre psicologo gestaltista. Come il suo campione di intervistati, se vi venissero fornite le parole “maluma” e “takete” per nominare le due figure, sareste quasi certamente d’accordo a chiamare “maluma” la figura tonda e morbida e “takete” quella spezzettata e spigolosa. Questo esempio ricorre quasi sempre quando si introduce il fonosimbolismo.

Cosa c’entra tutto questo con il naming? Per anni, e la configurazione continua tuttora, il fonosimbolismo è stato il principale contributo teorico alla pratica del naming. In Italia, ad esempio, rimando agli studi di Fernando Dogana e al suo Le parole dell’incanto. Esplorazioni dell’iconismo linguistico. Capire come convogliare determinati attributi funzionali, psicologici o di design di un prodotto attraverso il ricorso a determinati fonemi o concatenazione di fonemi, a una consonante palatale anziché labiale, ad una larga “a” anziché ad una stretta “i” è stato il cruccio delle più articolate operazioni di naming. Oggi mi vien più facile parlare di "sound design", così come di "letter design" (gli aspetti tipografici della configurazione delle lettere, particolarmente rilevanti nelle operazioni di identità visiva o di nomi creati per il web).

Pensate soltanto a quanti prodotti per l’igiene della casa si presentano come monosillabi, con quella “i” che dovrebbe trasmettere velocità, praticità, facilità d’uso (Vim, Cif, Lip).

Questa è la puntata introduttiva di una serie dedicata al fonosimbolismo. Mi limito quindi a introdurre l’argomento, che è centrale tuttora nell'ambito del naming professionale, non fosse altro perché è ancora ben presente nelle agenzie specialistiche: basta notare quale approccio segue un’agenzia americana come Lexicon Branding (Intel, Swiffer, BlackBerry tra i nomi più noti che ha coniato) e si comprende che le discussioni attorno al fonosimbolismo applicato al naming sono ancora attuali. Nel mio libretto di qualche anno fa non ho potuto ignorare questo filone, anche se ho provato a spostare l’accento sui contributi che possono arrivare da un costrutto sociolinguistico come quello di “situazione comunicativa”, sviluppato a partire dagli studi di William Labov, e dalla rilevanza della pragmatica linguistica. Ma non mi dilungo. Tornerò a parlare di fonosimbolismo con esempi in futuro. Poi, forse, esaurita questa serie dedicata al fonosimbolismo, mi addentrerò in alcuni esempi dedicati all’apertura sociolinguistica-pragmatica al naming (già ho iniziato a farlo, ad esempio, con il post dedicato al succo Santal B.A.). Prendendo a prestito e mutuando le parole del filosofo Donald Davidson, questa apertura sociolingustica-pragmatica sembra stia lì a dirci che “è la comprensione che dà vita al significato” dei nomi di marca. Non è un significato preconfezionato col nome che ne “garantisce” la comprensione. Non c’è alcuna garanzia di comprensione nella scommessa veramente creativa della comunicazione, compresa la comunicazione a fini commerciali. E dico questo con buona pace dei pubblicitari e namers che si autodefiniscono “creativi” e di tutti quelli che confondono questo aggettivo-sostantivo sfortunatamente inflazionato con una certa capigliatura, una montatura d'occhiali, un abito, o, peggio ancora, con un accento vagamente milanese.

giovedì 8 dicembre 2011

Subbuteo. Un altro nome lessicalizzato?

L'altro giorno, cercando una parola sul DISC, Dizionario Italiano Sabatini Coletti, acronimo-naming di quel dizionario che mi regalai durante l'università ed ennesimo esempio, a mio avviso, della generale non brillantezza degli acronimi (con qualche rara eccezione come Asics "Anima Sana In Corpore Sano) ho posato l'occhio su Subbuteo, una denominazione commerciale che, per gli autorevoli autori dell'opera, ha senso includere come nome ormai lessicalizzato. (Pensato e scritto per inciso, visti gli strumenti che l'informatica ci propone, sarebbe interessante che futuri dizionari online o su disc-o offrissero a tutti una query-filtro delle denominazioni commerciali in essi incluse.) Credo ci sia uno iato generazionale, Subbuteo è lessicalizzato per una parte della popolazione che a questo particolare gioco da tavolo si è appassionata. Ora, vuoi per le mode, vuoi per la diffusione pervasiva di console, sarebbe curioso verificare chi conosce questa parola. Quello che voglio dire è che un nome lessicalizzato dovrebbe avere una notorietà elevata (sul problema della notorietà delle parole il DISC si prensenta come un buon dizionario, evidenziando in grigio quelle parole sulle quali si può scommettere di "farsi capire" abbastanza facilmente, quelle poche migliaia di parole sulle quali, ad esempio, chi fa informazione o chi scrive per la Pubblica Amministrazione dovrebbe tararsi). Ci sono dei nomi che si sono forse lessicalizzati per una stagione, poi, per i motivi più vari, possono tornare ad essere quello che erano/sono: denominazioni commerciali. Un motivo per non aver fretta di includere denominazioni commerciali nei dizionari? Ad esempio quello che succede con K-Way (cappauei, nel mio dialetto) sta dimostrando questo: un nome lessicalizzato tanti anni fa, tramite un operazione di rilancio e recupero, vuole tornare ad essere quello che era/è, una denominazione commerciale, una moda, un brand (diventare lessico, per un brand, è sintomo di elevata notorietà ma non è la migliore delle sorti possibili, anzi). Per gli stessi motivi Post-it avvicina la dicitura "brand" alla propria denominazione (lo vedete bene nel retro) e Jeep ha comunicato per anni "Jeep. There's only one". Diventare lessico è garanzia di notorietà, ma può richiedere al brand sforzi notevoli in comunicazione.

Dopo alcuni post dedicati alla lessicalizzazione, vi rimando alla nuova risorsa web selezionata, raggiungibile cliccando l'alce verde a destra: un contributo di Vittorio Coletti su marchionimi e nomi commerciali.

sabato 3 dicembre 2011

Quando i francesi s'inventarono le baladeur (ancora sulla lessicalizzazione del nome di marca)

Risale a circa un anno fa la notizia della fine del Walkman. Fine di un'epoca gloriosa inaugurata da Sony, che ha trasformato le abitudini di molti. Oggi tutti sanno che la musica portatile si ascolta con altri apparecchi di diffusione, coi cellulari, con Apple, la quale ha lasciato un chiaro segno anche su questo mercato importante.

Walkman è un perfetto esempio di nome di marca che si è presto lessicalizzato (alla stregua di Jeep, Post-it, Scotch). Sorprende oggi - anche se è cosa risaputa - la capacità della Francia di contrastare questo fenomeno di lessicalizzazione e la parallela affermazione del sostantivo "baladeur" (quasi una traduzione di "walkman" visto che "la balade" è la "passeggiata" o la "gita"). L'ho già scritto, la normativa linguistica in Francia è una cosa sentita e seria. Ne sanno qualcosa le aziende che vendono prodotti e annessi libretti di istruzioni nei mercati francofoni (Canada compreso) e personalmente rimango stupito e ammirato ogni volta di come Ikea sappia preparare un manuale di istruzioni di montaggio comprensibile senza ricorrere alle parole, mentre magari l'azienda veneto-friulana che fa un prodotto simile mi intima di "fissare i 6 barilotti nelle apposite sedi della testiera del lettino". Capite che forse soltanto una persona con anni di esperienza in un fornito negozio di ferramenta sa cos'è il "barilotto", una vite con una configurazione tutta sua per fissaggi orizzontali/verticali...

Questa mossa francese - sulla quale si può scegliere di discutere a piacimento - si è rivelata un sistema efficace per combattere l'obsolescenza dei nomi di marca lessicalizzati. Oggi che il Walkman non c'è più, sostituito da iPod e altro, in Francia scrivono "le baladeur iPod". Il nome di marca tradotto, diventato nome comune, viene quindi anteposto alla nuova marca. La traduzione di un nome di marca altrove lessicalizzato è diventata in Francia un nome comune pronto ad accompagnare le future marche di dispositivi di diffusione di musica portatili, anche quando sarà passata l'era iPod.


Per quanto riguarda Sony invece, sarà interessante capire se intenderà recuperare la portata e la storia davvero notevole del brand name Walkman.

martedì 29 novembre 2011

Èspresso, Nespresso e le altre. La battaglia del caffè porzionato è anche nei nomi

Davvero è sotto gli occhi di tutti l’aumento di attenzione, anche in termini di comunicazione, al caffè porzionato in capsule. Una battaglia commerciale che si batte a suon di brevetti, esclusività, fidelizzazione e, in teoria, anche sul gusto (chissà cosa penserebbe il grande Piero Camporesi che al caffè e al cioccolato aveva dedicato quel suo libro dal titolo Il brodo indiano).
 
Circa un anno fa mi ero soffermato su un numero de L’Espresso dove contavo almeno cinque inserzioni dedicate al caffè in cialda, con annesso un articolo a sfondo economico su questo fenomeno. Cialde, macchine: un binomio che si sta imponendo all’attenzione. Pochi giorni fa invece mi sono soffermato sulla pubblicità di Èspresso, la cialda lanciata del più antico produttore di caffè italiano, Caffè Vergnano.
 
Normale, per chi scrive su un blog dedicato espressamente al naming, notare la sostanziale vicinanza con il brand del momento, cioè il Clooney-Nespresso-What else. Ma se il nome Nespresso è risultato della classica strategia di denominazione di moltissimi brand Nestlè, Nes+qualcosa (ad esempio Nesquik, Nescafé, Nestea ecc.), Èspresso gioca una strategia me-too apertissima fin dal naming con il proprio concorrente. E inoltre, nella realtà, si pone anche come cialda compatibile con macchine Nespresso.
 
Posso provare a capire le altre ragioni di questo naming. “Espresso” è ormai una parola internazionale, compresa in tutto il mondo, ad un livello di filosofia del linguaggio ha pure un referente unico in tutti i bar e Starbucks del mondo (non è così per altre parole della "caffetteria italiana"). Quindi “espresso” è una parola che fa gola. Però è altrettanto vero che il nome dovrebbe servire a posizionare, suggerire, offrire uno spunto. Relativamente a questo naming rimane quindi una perplessità sulla pronuncia (lo accentiamo davvero sulla prima “e”?) e una sul posizionamento. Rimedia bene a questo la copy-strategy scelta dall'azienda piemontese: "È italiano. È sotto casa. È ecocompatibile" (tre aspetti che si tramutano in vantaggi-posizionamento evidenti per il consumatore). In questo senso allora viene recuperata quella "e" accentata del naming e lanciata apertamente nella comunicazione tripartita del prodotto.

lunedì 28 novembre 2011

"Gomme termiche". Un naming improprio che porta bene?

Il naming a volte funziona anche ad un livello di "nome comune". Funziona ancor meglio quando fa passare un concetto e lo rende spendibile nel linguaggio di ogni giorno. Mi sembra il caso dell'espressione "gomme termiche" che, almeno dalle mie parti, ha quasi il sopravvento su quella più corretta ma meno efficace di "pneumatici invernali". In questi giorni i gommisti lavorano a mille e credo lavorino molto più degli anni scorsi, nonostante le precipitazioni nevose, almeno nella zona dove abito, non siano esponenzialmente aumentate. Mi pare sia evidente perché il naming (improprio?) di "gomme termiche" funzioni: sembra quasi ci sia un asciugacapelli incorporato nel pnumatico che fende la neve e ti lascia libero di guidare come su una strada asciutta... sicuramente l'espressione "gomme termiche" ha una certa presa sull'immaginario, più di "pneumatici invernali". Ho provato a chiedere a qualcuno come si spiega il funzionamento di questo tipo di pneumatici... Trovo questo un esempio di come ci sia anche un universo di naming che va oltre i brand ma che entra ugualmente nel linguaggio di ogni giorno. Lo scopo rimane sempre quello: sostenere la vendita.

domenica 20 novembre 2011

IDEA, il nome dello scarpone da sci allungabile per bambini

In tanti attendono in questo periodo le prime nevicate per poter lanciarsi con gli sci. Affronto allora un prodotto e un caso di naming che mi sono molto vicini, forse pure troppo, in quando si tratta di un prodotto e un brevetto internazionale che esce da Roces, azienda per la quale lavoro da diversi anni. Ne ho seguito l’idea originaria (davvero rivoluzionaria per un settore assai conservatore come quello degli scarponi da sci), i primi studi di fattibilità, quella che nel gergo si chiama SWOT analysis, i vari passaggi del design (davvero avvincenti quando si affronta un concept di prodotto inesistente), lo studio dell’immagine coordinata, la definizione della piattaforma comunicativa e il delicato lancio nel 2006. Ovviamente ero presente quando si decise definitivamente per il nome IDEA.

Il prodotto in questione è uno scarpone da sci per bambini regolabile in lunghezza, altezza e larghezza. Segue armonicamente la crescita del piede, della caviglia e del polpaccio del bambino e può durare fino a tre stagioni sciistiche. Offre quindi una risposta concreta alla rapida crescita dei piedi dei bambini.

Per Roces ha rappresentato il rientro, tutt’altro che scontato, nel mercato degli scarponi, dopo decenni trascorsi tra pattini inline e da ghiaccio. (Detto per inciso, in qualsiasi aeroporto d’America vi troviate, provate a dire che avete “inline skates” nello zaino… quasi sicuramente vi chiederebbero “what?”; allora meglio se siete pronti a dire “rollerblade” per descrivere i vostri pattini in linea, citando come nome comune un nome di marca vero e proprio: ecco un esempio a me vicino di “lessicalizzazione del nome di marca”, come scotch o post-it, una cosa di cui potrei parlare a breve in un blog come questo).

Dal punto di vista del risparmio per le famiglie, dal punto di vista del design inteso come “aggiunta di nuove prestazioni a prodotti già maturi” e anche dal punto di vista ambientale (un numero inferiore di scarponi che finisce in discarica, con la possibilità di “far durare” davvero per anni il prodotto), lo scarpone IDEA è un prodotto davvero ineccepibile. Anche la risposta del mercato è arrivata presto.

In questo spazio parlo di naming. Da “deformato” quale sono, mi sono posto varie volte l’interrogativo se IDEA fosse il nome più “adatto” per un prodotto con un portato così ampio di innovazione intrasettoriale. Se mi fossi fatto guidare dal binomio naming-posizionamento avrei infatti dovuto privilegiare una lettura del naming che dicesse cosa fa questo prodotto (si allunga, si accorcia, si alza, si abbassa, si allarga… fa tante cose!). A distanza di anni però devo dire che la denominazione scelta ha mostrato degli indubbi vantaggi. Provo ad elencare i principali.

- Ha comunicato italianità e questo, nel settore sciistico, rappresenta un vantaggio (la cosa più interessante è sentire inglesi, australiani o americani pronunciare questa parola, identica nella loro lingua, con la pronuncia italiana);
- ha rappresentato quello che il prodotto è: un’idea, qualcosa alla quale nessuno aveva pensato prima, un’intuizione (banalmente, ma non facilmente, quella di mutuare una tecnologia da anni presente nell’industria dei pattini a un settore vergine ma affine, quello degli scarponi);
 - si è prestata a dei vantaggiosi giochi linguistici a livello di copywriting;
 - è breve, facile da ricordare e tutto questo fa gioco anche con la strategia di comunicazione che ha visto nel web il canale privilegiato della promozione, laddove il contenuto “virale” del prodotto si sposa con la velocità di diffusione del (buon) virus tipica del web;
 - nella sua semplicità assoluta raduna l’essenza del prodotto ed ha saputo funzionare come coagulante dell’operato di tutti quelli che ci hanno lavorato sotto, sopra, dietro.

Per tutti questi motivi, alla fine, reputo IDEA un naming all’altezza di un prodotto così innovativo. Probabilmente, se ci fossimo incaponiti su una ricerca che abbinasse naming e posizionamento non saremmo riusciti a perseguire così tanti obiettivi con un nome diverso. Chi può dirlo oggi? Resta anche il fatto che se la concorrenza reagirà con prodotti simili, IDEA resterà un buon nome per il capostipite di tutti gli scarponi allungabili per bambini, per lo scarpone che ha creato una categoria prima inesistente. Il contenuto di innovazione è talmente alto nel prodotto che non si è cercato di forzare la mano anche nel naming, privilegiando un nome adatto alla famiglia, il vero punto di riferimento per un'idea del genere. Questo è quello che traggo da tutta questa storia, che, sotto gli altri aspetti, rimane soprattutto un'interessante e avvincente storia di design (italiano).

Vi lascio con la visione del video che illustra il funzionamento e i benefici di questo scarpone, una realizzazione che ho portato a termine un paio di mesi fa con lo studio Multimediabazan e da poco caricata su Youtube.


venerdì 11 novembre 2011

Martini rocks!










Ogni tanto sarà bene tornare su post più vecchi per integrarli, supportarli, eventualmente anche correggerli. Ed è proprio quello che vorrei fare brevemente oggi, con riferimento all'intervista ad Angelo Ferrara di RobilantAssociati, la settima della serie. Potrebbe essere uno stimolo per dedicare dei post ad alcune creazioni e integrazioni dei vari intervistati che si sono susseguiti (altri ne verranno, mi auguro).

Il nome che RobilantAssociati ha sviluppato per Martini è un pun, o gioco di parole (lasciatemi una parentesi, che alla fine c'entra pure col naming: un editore nostrano si prenderà la briga di tradurre e proporre The Pun also Rises di John Pollack?). Il nome ha in sé diversi nuclei di interesse:

1. un aspetto "metodologico": trasforma la metodologia ghiaccio: da on ice - on the rock - it rocks;
2. si lega a Martini e diventa verbo e messaggio: Martini Rocks;
3. sposta il baricentro verso un pubblico più giovane diventando quasi una sorta di slang: "Martini Rocks" s'avvicina a significare appunto "un grande", uno che "spacca";
4. il logo Martini, "O" inclusa, e viene proposto in verticale, per accentuale la sua natura "ribelle" e informale (aggiungiamo che anche le scelte di lettering vanno in questa direzione);
5. al contrario dei nomi allegati a Martini (Royale), tale denominazione diventa un "pezzo unico" assieme al marchio.

Questa case study, così brevemente enunciata, è un'ottima esemplificazione del concetto di piattaforma comunicativa di un nuovo nome, per il quale rimando all'intervista ad Angelo Ferrara.

domenica 6 novembre 2011

Colgate, Carefree, Gio'Style. Quando la pronuncia va per conto suo

Le tre marche del titolo sono le prime che mi sono venute in mente. Rappresentano casi di una pronuncia fortemente italianizzata. Sarebbe interessante procedere ad inventariare queste situazioni e capire come nasce questo rapporto "viziato" tra naming internazionale e pronuncia locale del nome. Dopo il post relativo ai nomi di Algida, mi rendo conto che sto procedendo a portare esempi di casi non ortodossi che vanno contro i capisaldi delle più consolidate pratiche di naming (stesso identico nome in tutto il mondo, pronuncia inattaccabile da spelling errati). 

Una spiegazione di base per questo paio di fenomeni è comune: l’internazionalizzazione degli scambi, delle acquisizioni (merger and acquisitions) e del branding è stata molto più rapida dell’internazionalizzazione del “mercato” dei segni, che vive tempi più lunghi, compreso nel caso di quel triste basic-business english oggi lingua franca in molte scelte di naming.

Ma torniamo ai tre esempi Colgate, Carefree e Gio’Style: è stato il massiccio martellamento pubblicitario che ha messo in circolo queste pronunce, basti ricordare i jingle di Carefree o Gio’Style (in questo secondo caso serve andare un po’ più indietro negli anni). Così anche presso un pubblico che masticava abbastanza bene l’inglese ha vinto la pronuncia italianizzata.

Si potrebbe riflettere sulle ragioni di queste scelte. Quasi sicuramente i pubblicitari, sfiduciati dell’italica non conoscenza delle lingue straniere, si sono convinti che era opportuno italianizzare al massimo le pronunce. Il fatto è che, nel caso di Carefree (sic... letto proprio come si scrive), ne è uscita una pronuncia assai buffa che inoltre ha spappolato completamente il buon posizionamento convogliato da quel nome ("spensierata"). Ovviamente tale posizionamento è stato recuperato dalle storie narrate dagli spot (c'è tutto un filone di prodotti per il personal care o la farmacia fai-da-te che narra la giornata fuori casa libera dai pensieri che possono dare certi "intoppi" come il raffreddore, la diarrea o altro ancora, un filone che esplicitamente sostiene la necessità della "performance" nella vita di ogni giorno fuori dalle porte di casa).

La mia percezione è che tale fenomeno di italianizzazione di pronuncia si sia arrestato. Naturalmente servirebbero studi e metriche adeguate per affermarlo con certezza. Se la percezione si confermasse vera, credo che le cause potrebbero ritrovarsi in una migliorata alfabetizzazione, in una maggiore mobilità e anche nell’assenza di martellamenti così massicci come quelli di un tempo che servivano a introdurre/imporre all’attenzione determinati prodotti congiuntamente alla loro pronuncia (giusta o adattata che fosse). Se l’era dell’interruption marketing volge al termine come ha sostenuto Seth Godin, allora anche il naming dovrà in parte tener conto della cosa. Resta comunque il fatto che le diversità di pronuncia rimarranno sempre e ovunque, con buona pace di tutti. Un buon nome internazionale può soltanto provare a rendere il compito della fonazione più agevole su diversi paralleli e meridiani.

martedì 1 novembre 2011

Tutti i nomi di Algida

Il caso della marca di gelati rappresentata dal cuore qui accanto è interessante. Sembra infatti andare contro uno dei postulati del naming, cioè quello dell'unicità del nome.

Chiunque abbia un po' viaggiato per l'Europa avrà trovato e magari acquistato un gelato Eskimo, Frisko, Ola, Frigo, Langnese consapevole di mangiare un Magnum Algida o qualcosa del genere: sono tutti nomi che si riferiscono sempre e comunque al marchio di proprietà di Unilever (un filosofo del linguaggio potrebbe fare una lezione sul naming di questo brand). Questa configurazione di naming può darsi nei casi di crescita per nuove acquisizioni, tipico di aziende multinazionali, un processo che può portare un brand ad assumere differenti brand names a seconda del paese dove ci troviamo o ad assorbire la denominazione "dominante".


In Wikipedia leggiamo che la marca di cui sto scrivendo sta progressivamente abbandonando il nome per far vivere il suo heartbrand in solitudine (e qui mi chiedo: Nike ha davvero rivoluzionato l'immaginario con il suo swoosh?). Tuttavia, un nome basato sul suono e sulla fonetica deve sempre darsi, fosse anche per il semplice fatto che se parlo vado decisamente meglio (ed è meglio anche per l'azienda) se chiedo "un gelato Algida" anziché "un gelato di quelli col cuore". Ma questo è solo il primo motivo che mi viene in mente e la lista si potrebbe allungare per cui, quello che ricaviamo ora, è una sorta di monito: nessuno pensi di poter far fuori il nome in vista del solo logo-emblema; piuttosto servirà capire come gestire le problematiche di traduzione e pronuncia, a livello globale, di un dato brand internazionale. In ottica futura sarà interessante capire se tutti i nomi di Algida rimarranno tali (una moderna versione in ambito naming del solito adagio Think globally, act locally) o se dovremo ipotizzare un'operazione di re-naming su scala mondiale che dia a questo "Heartbrand" (così lo chiama Unilever nel proprio sito) un naming unico e immutabile.

mercoledì 26 ottobre 2011

Mulino Bianco e i nomi dei biscotti

Inizialmente doveva chiamarsi soltanto Mulino, per rinviare a un mondo di natura, tradizione, artigianalità, ruralità e genuinità, ma degli opportuni name test evidenziarono che la parola "mulino", da sola, poteva avere anche una connotazione non desiderata per il nuovo brand di Barilla: c'era infatti il pericolo che potesse richiamare qualcosa di sporco, non igienico. Fu così che aggiustarono il tiro e unirono le parole "Mulino" e "Bianco". Questo il ricordo della lettura di un saggio sul lancio di una delle marche più note d'Italia, se la memoria non tradisce uno scritto di Giampaolo Fabris.

Di lì poi venne un naming system davvero unico, coerente, a pensarci ora direi quasi monolitico. Sul retro delle confezioni degli anni Ottanta ricordo tutti i biscotti disposti a scacchiera. Sugli ingredienti di questi io e mio fratello ci interrogavamo la mattina facendo colazione. I nomi dei singoli biscotti, a pensarci oggi, erano coerenti con l'universo del Mulino Bianco (pensiamo ad esempio a "Mugnai", e poi "Macine", "Galletti", "Molinetti", "Pale"). Quello di Mulino Bianco è forse uno degli esempi di naming system più capillari, efficaci e longevi nella storia della recente comunicazione, almeno nel settore alimentare. Un classico caso di marca e creazione di un suo "mondo possibile", dove la strategia di naming si è fusa largamente con la strategia di identità visiva, di comunicazione pubblicitaria, di lancio di sempre nuovi prodotti che abitassero quel "mondo possibile". 

Oggi alcuni di quei "comuni" nomi di biscotti sono diventati a loro volta brand a tutto tondo, pensiamo a "Pan di stelle" o ad un naming più descrittivo come "Grancereale", il quale copre ad ombrello una determinata gamma di prodotti, dai biscotti ai cereali per la prima colazione passando per gli spuntini dolci. Registro il ritorno di un naming più descrittivo, nonostante tutti i guru del naming sconsiglino vivamente di optare per un naming che descrive (un altro nome descrittivo in casa Mulino Bianco è "Storie di Frutta"). Sarà il caso di approfondire in futuro questa che per ora rimane una sensazione.


Vi lascio con uno spot e un rinvio ad un libro assai vicino a questi temi di naturalità che ho recensito quest'estate nell'altro blog, qui.


martedì 18 ottobre 2011

Toy naming. Quanti nomi in un giocattolo.

L'altro giorno osservavo la confezione del Sapientino che Clementoni ha dedicato a Cars 2 di Disney/Pixar. Avete contato quanti nomi ho menzionato per circoscrivere questo giocattolo che potete trovare anche nelle librerie più fornite, nello straripante reparto di libri per bambini? Ben cinque! C'è l'azienda italiana Clementoni. C'è uno dei suoi brand storici, Sapientino. Poi c'è Cars 2, uno dei cartoni animati del momento, e infine il binomio Disney-Pixar. La struttura nominale di questo gioco assomiglia ad una configurazione a scatole cinesi. Se mi consentite un paragone dermatologico, abbiamo l'ipoderma di Clementoni, il derma Sapientino e l'epidermide Cars 2 - Disney - Pixar. Simili strutture nominali non sono rare nel mondo del licensing nel quale Disney ha una lunga storia. Banalmente, contando i nomi presenti in una confezione di un gioco possiamo capire qualcosa di più del modo in cui si costruiscono determinati prodotti (e determinati costi di prodotto) oggigiorno.

sabato 15 ottobre 2011

Groupon, il nome del business più veloce del web

Se c'è un business nato sul web che sta crescendo notevolmente quello è Groupon. Un modo nuovo di vendere beni e soprattutto servizi, che si basa sull'interazione tra virtuale e reale.

Il sistema è abbastanza semplice: si acquista online un bene (soprattutto servizi: parrucchiera, estetista, ristorazione) e si beneficia di uno sconto importante. Per l'attività commerciale che aderisce, tale business model consente ad esempio di aumentare la frequenza d'erogazione di un servizio nei momenti di stanca (pensiamo ad un ristorante di città aperto ad agosto) o, per esempio, di far conoscere la palestra nella zona industriale dietro casa alla quale nessuno dava molto credito. Lo sconto importante combina il resto per scatenare il passaparola.

Il buzz che queste esperienze di acquisto scatenano è notevole. L'altro giorno al bar ho intuito che la barista stava pubblicizzando agli avventori questo nuovo tipo di customer experience che lei stessa aveva provato. Era diventata testimonial non retribuita, o meglio, retribuita con lo sconto di cui aveva beneficiato.

Il nome è dato dalla fusione-contrazione di group+coupon. Perché questo? Il nome Groupon è uno dei nomi che vorrebbe da solo spiegare la meccanica di funzionamento di questo nuovo sistema "incentivante" basato prima sull'acquisto di gruppo di un dato servizio e in seconda battuta sul coupon che dà accesso allo sconto importante (fino al 70% recita la campagna Google Adwords), vero motivo del passaparola che io stesso ho intercettato.

Il modo in cui si fa il deal diventa oggi importante tanto quanto il bene acquistato? O di più, addirittura?

Vi segnalo questo interessante post da "Il Mestiere di scrivere", il ricchissimo blog di Luisa Carrada. Troverete alcune considerazioni e dei link relativi alle norme redazionali che gli editor di Groupon devono perseguire per una maggiore efficacia della loro lingua e scrittura. Tra loro si segnala l'editor in chief Aaron With.

mercoledì 12 ottobre 2011

Twitter e Twittad litigano sul Tweet

Le principali controversie legali in ambito di naming si sono spostate sul web, o perlomeno - mettiamola così - sul web iniziano ad esserci molte controversie attorno alle denominazioni. Normale che sia così. In questi giorni è la volta di Twitter, il social network del momento, che ha in corso una battaglia con l'azienda Twittad che apprendiamo essere "the largest and most effective form of sponsored advertising on Twitter". La vicinanza tra le due aziende è quindi non solo da un punto di vista fonetico. La controversia verte sulla parola Tweet che tutti gli utenti di Twitter conoscono benissimo, il "cinguettio" di 140 caratteri che si deposita sulla timeline del social network. Si tratta di una parola-brand pienamente integrata nel glossario di questo social network (pensiamo anche a "retweet"). Twittad tuttavia aveva registrato per prima il marchio Tweet. Twitter rivendica il diritto alla proprietà di questo nome. Le due aziende sono arrivate al tribunale. Capiremo probabilmente a breve quale intonazione avrà in futuro il cinguettio più popolare del web.

giovedì 6 ottobre 2011

Angelo Ferrara e il brand naming secondo RobilantAssociati

Interviste a chi il naming lo fa #7

Prosegue la serie di "interviste a chi il naming lo fa". Il settimo appuntamento è con RobilantAssociati, realtà di cui ho già scritto altre volte in questo spazio. Tanto per intenderci sulla rilevanza di RobilantAssociati nel mondo del brand design potremmo ricordare alcune svolte epocali che ha introdotto (ovviamente in partnership con i propri clienti), cambiamenti che sono tutti i giorni sotto i nostri occhi: la revisione all'identità visiva dei Baci Perugina, con gli innamorati non più in primo piano ma spostati sullo sfondo e ringiovaniti, azione perseguita per "disimpegnare" e aggiornare questo cioccolatino altrimenti troppo compromesso con l'innamoramento e con un'immagine che ormai aveva trent'anni, le attuali versioni dell'identità visiva di marchi dell'importanza di Alfa Romeo, Fiat, Lancia. A parlare del brand naming in casa Robilant troviamo Angelo Ferrara, entrato nella struttura nel 2008 con l'incarico di direttore creativo della divisione Corporate Branding.

AC: Come si inserisce il naming nella ormai lunga storia di RobilantAssociati?
AF: RobilantAssociati ha sempre impostato con i propri clienti una partnership collaborativa, basata su fiducia e condivisione degli obiettivi. Questo ha permesso di essere coinvolti nelle fasi sempre più a monte dei processi di New Product Development, portando una conoscenza reale e intima delle dinamiche produttive e delle caratteristiche di prodotto.
Una simile vicinanza al cuore produttivo dell’impresa è la chiave per la definizione delle migliori strategie, finalizzate a valorizzare sul mercato il prodotto/servizio e i suoi punti di forza.
La richiesta dei nostri clienti di potersi affidare al nostro approccio olistico al brand anche per questo il servizio di naming è quindi cresciuta progressivamente e nel tempo la nostra expertise è maturata estendendosi dal naming di prodotto al naming per brand e servizi.

AC: Quali settori, dal vostro punto di vista, si dimostrano più attivi e anche sensibili a questa particolare tematica del branding?
AF: Il naming è fondamentale sicuramente per tutti i prodotti che nascono per il mercato consumer e rappresenta una forte leva per alcune operazioni di branding. Ma mentre la realizzazione di un nome per prodotti commerciali è quasi necessario, la creazione di un nome per un’azienda, uno studio legale o di un museo è più recente, e diventa sempre più rilevante. Questo settore ricerca in un nome il messaggio ed il racconto, che comunichi istantaneamente, che si incolli alla mente e abbia un suono “familiare”. In un mondo dove catturare l’attenzione è una sfida, il nome deve oggi diventare una piattaforma comunicativa. È quello che oggi viene chiamato “microstyle”.
Ma rifuggendo dall’uso del naming come esercizio creativo fine a sé stesso, RobilantAssociati ha sempre utilizzato il naming come strumento a completamento di strategie di branding fortemente legate all’identità dell’azienda e alle sue prospettive di sviluppo. Potremmo dire che realizziamo un nome solo dopo aver definito una storia.
Quando abbiamo realizzato il brand per il servizio di shuttle Alitalia tra Roma e Milano, abbiamo cercato un nome diretto e memorabile, in grado di comunicare la tempestività, l’efficienza e lo stile asciutto che il businessman ama. Il nome RomaMilano-MilanoRoma nella sua disarmante semplicità, racchiude tutto questo. Ma è stato anche avvallato da una brand image, uno stile di comunicazione ed elementi architettonici che hanno raccontato questo stile affascinante e asciutto. E surprise-surprise, il nome era anche disponibile per essere registrato.
Per InPartner abbiamo realizzato un nome, Parallelo, che non voleva solo delineare uno spazio, ma una nuova categoria nell’edilizia, da grattacielo (verticale) a Parallelo (orizzontale).
Per il consorzio Melinda abbiamo definito un nome che si sviluppa intorno al concept “Real Quality (of life)”, inteso come qualità totale della vita, per quei consumatori interessati a sapere non solo chi produce, ma anche come e da dove provengano i prodotti. Il nome From: diventa quindi sia nome che messaggio (where do you come From:?).

AC: Lei ha vissuto e operato all'estero per diversi anni. In riferimento a questa tematica specialistica, ha potuto constatare una specificità del naming (nell'approccio metodologico, nel modo di richiedere e/o offrire il servizio, nella considerazione dell'importante aspetto legale)?
AF: Nella mia esperienza all’estero, ma non ho mai partecipato ad una ricerca nomi “scientifica”. È sempre arrivato mentre si lavorava al progetto, in maniera maieutica. Si avvisava sempre il cliente che un nome non era un momento “eureka” e di pura genialità, che difficilmente ci si innamorava al primo momento, che bisognava avere coraggio (nomi che sono diventati vincenti nel mercato, venivano scartati durante le ricerche di mercato perché troppo audaci), che se ci faceva sentire a disagio, forse c’era qualcosa di interessante nel suo interno. Se un nome non era legalmente disponibile, si poteva cercare una modalità per risultare vincenti: il museo Tate Modern di Londra non ha un indirizzo web diretto (tate.com oppure tatemodern.com), ma la notorietà del luogo ha fatto sorpassare questo ostacolo. Ma un punto era imperativo: bisognava sempre vedere il nome insieme al suo abito: il nome è sempre legato al positioning e la brand identity.

AC: Nel vostro sito noto nella sezione "brand naming" una significativa presenza del "food&beverages". Soffermiamoci sul settore vinicolo. In questo blog ho parlato di wine naming in passato. Non crede che per un paese, un mercato e un contesto produttivo come l'Italia ci siano dei passi da gigante da compiere in questo preciso settore? È questa eventualmente l'occasione per lanciare qualche riflessione sullo stato di salute dei wine brands italiani? Al di là di quelle situazioni con una brand heritage notevole, ci potrebbe essere spazio per un'innovazione di prodotto che parta dall'analisi del mercato... e quindi la necessità di creazione di nuovi brand (di conseguenza nuovi brand name). Cosa ne pensa?
AF: In questo momento il comparto vitivinicolo italiano sta vivendo in realtà uno dei momenti di maggior successo, essendosi piazzato addirittura prima di quello francese per qualità e ricchezza dell’offerta. Tuttavia una riflessione sui suoi possibili sviluppi sarebbe di certo auspicabile, dal momento che nuovi attori si stanno affacciando a questo mercato con politiche di espansione sempre più aggressive.
Una serie di Paesi, primo fra tutti il Cile, pur non vantando la medesima tradizione e ricchezza dell’Italia in fatto di produzione vitivinicola, si stanno affermando sullo scenario internazionale grazie a piani strategici estremamente dettagliati e concreti volti alla conquista i mercati esteri.
L’Italia dal canto suo, pur nella sua eccellenza, paga il prezzo di un comparto molto frammentato e della mancanza di un piano di sviluppo concreto come sistema Paese con il quale presentarsi ai mercati stranieri. Singole strategie di brand, o di naming, non sono la risposta a problemi strutturali di questo tipo.

AC: Quali sono a vostro avviso i brand name più significativi comparsi negli ultimi anni? Brand name che in qualche modo segnano un momento, delineano un'innovazione, uniscono coraggio-creatività-visione?
AF: Amo i nomi composti, apparentemente banali: Walkman, Playstation, Blackberry, YouTube, Facebook. Nomi che diventano parte del nostro modo di parlare, che superano il prodotto stesso e si posizionano come nomi di categoria. Ma più che al nome stesso, sono affascinato ora dalla sinergia che si instaura fra il nome, il payoff e il manifesto. Sempre di più vediamo nomi che vengono raccontati attraverso una storia, un credo. Fra i più famosi, il video di Apple-Think different. Ho trovato questa magia anche nel brand telefonico Orange di Hutchison, un nome che non ha niente a che fare con tecnologia, ma con semplicità ed ottimismo, un nome che va contro i tecno-nome di Vodafone, T-Mobile o Cellnet. Un positivismo che si è manifestato non solo con il nome (è stato il primo ad introdurre il bill-per-second). Ma è con la sinergia del nome, payoff e campagna di lancio che ha costruito una forte piattaforma emotiva e strategica. I primi manifesti erano di colore nero e tappezzavano la città con dei semplici titoli in un sottilissimo Helvetica Neue: listen. cry. talk, laugh. E una frase di chiusura “the future is bright, the future is orange. Come si fa a non innamorarsi di un nome raccontato così?

martedì 4 ottobre 2011

Merkozy. Il naming dell'economista Nouriel Roubini















Già da qualche tempo, da quando i due uomini di stato ritratti qui sopra hanno cominciato un articolato lavoro in tandem, il linguaggio giornalistico ha fatto propria l'espressione Merkozy. L'utilità è evidente. Si tratta di un'etichetta comoda per riferirsi a quello che è considerato il duo del potere nell'Europa attuale. Dal momento che le notizie riguardanti questo "asse" diventano copiose, ecco arrivare l'economista Nouriel Roubini con questo gradevole neologismo. Pare proprio che il neologismo abbia fatto breccia e abbia colto un "bisogno latente" di veicolare un certo messaggio o un certo genere di notizia in modo sintetico, univoco e caratterizzante. Nouriel Roubini dimostra inoltre buone capacità di namer! Ha infatto sfruttato il gruppo di lettere centrali che accomuna i due cognomi (meRKel e saRKozy) e ha optato per un naming che lo recuperasse, assonante coi nomi di partenza, con l'invarianza del gruppo di lettere RK al centro: meRKozy. Ho cercato con google.com "merkozy" e il motore di ricerca restituisce circa 77.500 risultati. Merkozy insomma funziona, almeno a livello di naming! Una riprova che a volte esistano namers insospettabili e anche capaci e che le esigenze di naming nel mondo della notizia siano più frequenti di quanto si possa immaginare.

mercoledì 28 settembre 2011

Ottanio e il nome del colore nella moda

Quello dei colori è un tema interessantissimo, trasversale tra i popoli e le epoche. Ci sono evidenti implicazioni culturali, simboliche, iconografiche e storiche. Anche nell'ambito della comunicazione è nota la loro centralità, soprattutto in termini di posizionamento mentale: Ferrari, Marlboro e Coca-Cola sono marche "inesorabilmente" rosse, anche se sfogliando un brand manual di Ferrari potremmo scoprire che anche il nero e il giallo rientrano ugualmente nella visual identity del brand di Maranello. Parallelamente, un altro tema affascinante è quello del naming dei colori. Se uno guarda la List of colors di Wikipedia potrebbe meravigliarsi di quante gradazioni siano state codificate con un nome preciso. Esistono anche i dizionari dei colori, come The Oxford Color Dictionary & Thesaurus, dove magari potremmo apprendere l'origine del colore "rosso veneziano", quando è stata usata per la prima volta questa espressione.

Già da qualche anno si sente parlare di "ottanio" in ambito moda. Anche il "tortora" ha conosciuto la sua stagione. Non saprei dirvi il riferimento Pantone corretto. Assomiglia anche a quel colore teal che trovavamo spesso come desktop neutro di Windows negli anni Novanta (ve lo ricordate, che brutto! Forse però era riposante per gli occhi...). Una tinta tra il verde e il blu, con un tocco vintage. Non so se però anni addietro venisse usato il nome ottanio per definirlo. Mi chiedo quando è stato codificato il nome ottanio, questo colore da "spingere" e da vendere con un sapore neanche tanto vago di idrocarburi. Chissà se è venduto come colore "grintoso"? Ci vorrebbe un articolo dedicato all'escalation dell'aggettivo "grintoso" nel mondo degli addetti moda... ci avete fatto caso? Come se tutti fossimo degli smidollati ai quali solo un capo "grintoso" può offrire ancora sostegno vertebrale!

Non è irrilevante che il colore di moda abbia un nome ricercato, una sorta di color-brand. Per chi è dentro queste cose, per gli addetti e per gli/le addicted, dire "quest'anno va di moda il blu" è assai diverso da dire "quest'anno va di moda l'ottanio". Sembra quasi che l'ottanio sia diventato una specie di sovrabrand trasversale che le varie case di moda possono applicare alle proprie collezioni. Battezzare un colore non è quindi un atto secondario. Lo sapeva bene Yves Klein quando diede a quella particolare tonalità di blu oltremare il proprio nome. Ancora una volta atterriamo nei territori del naming nell'arte, e non è un caso visto che moda, design e arte oggi costituiscono assieme un sistema coeso in fase di sviluppo.

domenica 25 settembre 2011

Morbistenza. Un neologismo per la carta igienica

La lingua della pubblicità ama le esagerazioni. Talvolta queste esagerazioni sono delle evidenti bugie. I rotoloni Regina "che non finiscono mai" sono un esempio. Sono bugie che ormai accettiamo sovrappensiero, rientrano nelle regole di quella lingua giocosa e sempre sopra le righe. Sempre la carta igienica ci ha abituati a soluzioni pubblicitarie inaspettate, come nello spot con l'Alighieri che scrive su rotoloni fintamente inesauribili la sua veramente inesauribile Commedia (Foxy). Sono questi due esempi di comunicazione in cui ciò che conta è il binomio dato da lunghezza e durata. Come a dire: niente panico, non ti troverai alla fine della tua rilassante seduta a imprecare perché il rotolo è finito. 


Oggi la comunicazione pubblicitaria attorno alla carta igienica cambia direzione, e lascia da parte almeno per ora quei benefit a favore di una nuova caratteristica, reperibile stavolta nei rotoli Tempo. Parliamo della morbistenza, evidente neologismo e parola-macedonia data da morbidezza e resistenza. Al marketing di questa azienda probabilmente hanno fatto tesoro di frasi sulla falsariga di quelle lanciate da una celebrità (non ricordo bene quale) che sosteneva che giunta in Italia aveva iniziato ad apprezzare la carta igienica più morbida (vado a memoria). L'esperimento linguistico, che può far sorridere, è interessante perché ricorre al naming per una caratteristica del prodotto e non tanto per il product name: da quello che ho scorto nello spot, "morbistenza" è registrato o in via di registrazione, come una sorta di pay-off, una specie di "Just do it". Si tratta comunque di una scelta che sposta l'asse dalla comunicazione dalla lunghezza-durata dei rotoli (posizionamento forse esaurito perché troppo ricercato) a quello della morbidezza (unita alla resistenza). Sembra quasi che "resistenza" sia un'appendice aggiunta a "morbidezza" per scongiurare imbarazzanti incomprensioni della morbidezza (uno infatti potrebbe pensare che una carta troppo morbida diventi pericolosa).

Al di là dell'ironia, la carta igienica è un prodotto serio sul quale potrebbe essere stimolante fare comunicazione. Un prodotto trasversale, di rapido consumo, con evidenti implicazioni ambientali. Chi ha letto il bellissimo libro di Helga Schneider Il rogo di Berlino sa cosa significa non avere nemmeno un foglio di giornale a disposizione per sostituire la carta e, in una città progressivamente annichilita com'era Berlino alla fine della guerra, non avere la possibilità di ricorrere a rimedi naturali o di altro tipo per supplire alla sua assenza. Oggi invece potete scegliere tra la lunghezza-durata e la morbistenza. Le quotazioni delle carte igieniche profumate mi sembrano invece in caduta e, se volete una opinione, credo che sia giusto così.

giovedì 22 settembre 2011

R.e.m. (o Rem). I think I can remember your name.

Si sono sciolti i R.e.m., la notizia è di ieri. Come molti in Italia li avevo scoperti con Out of time (1991) e poi avevo percorso a ritroso la loro discografia fino a Murmur (1983) e Chronic Town (1982), consolidandola con l'indimenticabile Automatic for the people (1992), non perdendoli più di vista fino all'ultimo non convincente Collapse into now (2011). Lasciamo perdere quel senso forse stupido di dispiacere che prova qualsiasi fan al momento dello scioglimento dei propri beniamini, perché questo sono stati per chi scrive i R.e.m. per tanti anni. Non erano necessariamente i loro cd quelli che stavano più ore nel lettore, anzi, ma era il ricordo della scoperta della loro musica, le sorprese dei vecchi e nuovi album, l'idea che furono "galeotti" per la formazione del mio gruppo (a proposito, si chiamava Apryl, un bel naming del batterista) con il quale ho suonato per anni, tra l'altro musiche lontanissime dalle loro.

Ricordo quell'estate in cui divorai il libro di Stefano Magnani sulla loro storia. Dedicava più di una pagina alla scelta del nome della band: "Cans of piss", "Negro Wives" o "Twisted Kites", il nome con il quale si esibirono al primo concerto. Il loro successo è il motivo per riflettere sul naming delle band, ovvero il band naming (c'è solo una "r" di meno!). Un nome corto (come nel caso degli U2) ha portato molta fortuna e credo che si possa dire che il pop degli anni Novanta sia formato in larga parte da Rem e U2 (pur nelle diversità di scelte e atteggiamento). Solo recentemente, in epoca di scrittura digitale, era sorto il problema dei puntini tra le lettere del nome (ci vanno? Non ci vanno?). Pensando al nome, è normale che uno possa chiedersi: che cosa sarebbe successo se Michael Stipe non avesse scelto a caso, sfogliando un dizionario, quella sigla breve così centrata con il loro pop onirico, con liriche "alla maniera" di William Borroughs? Se avessero mantenuto uno di quei nomi poi scartati, le cose sarebbero andate come sono effettivamente andate? Sono quelle domande senza risposta che ogni tanto l'interesse per il naming porta a porgersi. Ma chissà se ha senso continuare in questi pensieri...

I nomi delle band sono a tutti gli effetti brand name. Ci sono nomi che hanno fatto epoca (pensiamo Rolling Stones o a Iron Maiden in ambito heavy metal). Sempre nell'ambito metal, magari restringendo la visuale al death metal, è interessante notare come i nomi abbiano solitamente una caratteristica me-too: le band cercano nomi simili, con rimandi e connotazioni macabre. Il post-rock ha portato una nuova generazione di nomi (pensate ai Tortoise o agli Shellac). Sarebbe interessante analizzare la storia della musica rock dal punto di vista dei nomi delle band. Si scoprirebbero dei filoni interessanti. La curiosità dei miei amati Rem è che alla fine, a differenza dei gruppi metal e dei loro iconici loghi, non si sono mai adagiati su un logo e, di album in album, abbiamo trovato quelle tre lettere scritte nei modi più disparati. In ambito italiano, tra i miei preferiti ci sono i Massimo Volume. Il loro nome pare derivi da quanto si dicevano durante le prove: "Massimo Volume!", invitando ad alzare a palla gli amplificatori. Ci ho sempre letto anche un senso di "volume" come "spazio occupato" e la citazione da Fuoco fatuo di Drieu La Rochelle contenuta in Lungo i bordi potrebbe avallare questa ipotesi. Scusate, ogni tanto un post autobiografico e nostalgico.

mercoledì 21 settembre 2011

L.H.O.O.Q., quel genio del naming di Duchamp

"Elle a chaud au cul", questo il pun che sta dietro uno dei più curiosi casi di naming dell'arte. Nel 1919 quel genio ante-Photoshop di Marcel Duchamp mette i baffi alla Gioconda. La stringa di lettere, così difficile da mandare a memoria, sembra stia appunto per "Elle a chaud au cul" (Lei ha caldo al culo, lei è eccitata).

Non è l'unico caso in cui Duchamp si distingue per un'operazione di naming sopraffina. L'orinatoio si intitola infatti "Fontana" e oggi in tanti lo citano parlando di orinatoio-fontana.

Già ci è capitato di parlare di naming e arte, sia con le opere di Ivan De Menis ma anche ricordando gli acronimi, spesso infelici, che hanno dato il nome ai nuovi musei d'arte contemporanea della penisola. Ci capiterà ancora di tornare sull'arte e sui suoi rapporti con il naming. Quanti di noi riflettono soprattutto (o comunque molto) sul titolo di un'opera d'arte? E cosa sarebbe oggi il movimento dell'arte povera se un critico come Germano Celant non avesse trovato la felice etichetta, definizione (o più semplicemente brand name?) per quel gruppo di artisti che proprio in questi giorni sta facendo molto discutere per le non poche mostre internazionali che gli verranno dedicate nei prossimi mesi?

venerdì 16 settembre 2011

Un naming a portata di tastiera: Kijiji

Nell'epoca dei media digitali, può trovare spazio anche un nuovo tipo di naming che definirei "a portata di tastiera". La velocità di digitazione è una fattore chiave, anche su Google (non a caso è nato Google Instant), ed ecco allora che il brand consociato di eBay per i piccoli annunci prende il nome di Kijiji. Kijiji è una parola della lingua Swahili che significa villaggio.

Al di là delle considerazioni che si possono fare sulle lettere che la compongono e sul loro prestarsi a effetti grafici particolari, va notata la posizione ravvicinata delle tre lettere k, i e j sulla tastiera del vostro pc, come si vede sotto.

Il nome è molto ficcante da un punto di vista semantico, dal momento che gli annunci sono proposti divisi per "comunità urbana" (città). Le perplessità potrebbero sorgere dalla pronuncia. Interessante è inoltre il ricorso allo swahili, una lingua alla quale gli esperti di naming guardano sempre con una certa curiosità. Ma, come dicevo, si tratta di un nome per il web velocemente digitabile, un plus di certo non secondario.

Una curiosità in chiusura: l'agenzia che ne ha curato il naming è una delle più interessanti tra quelle con base operativa negli Usa, Catchword. Il loro sito merita una visita.

mercoledì 14 settembre 2011

Nomen Italia, specialisti di brand naming e servizi affini

Interviste a chi il naming lo fa #6

Veniamo ora alla più consolidata realtà di naming in Italia. Mi riferisco a Nomen Italia, fondata sul finire degli anni Ottanta da Béatrice Ferrari. Ora, dopo il suo distacco già ricordato nella prima intervista di questa serie di “interviste a chi il naming lo fa”, l’agenzia milanese del network internazionale Nomen porta avanti un operato contraddistinto da know-how largamente stratificato e multisettoriale, come si evince dalle risposte del duo composto da Armelle Sabba e Gianluca Billo.



AC: Nomen... omen. Con un nome così si capisce che Nomen è l'incipit del naming professionale in Italia. Dal vostro osservatorio privilegiato, quale sguardo e percezione avete dello sviluppo dei servizi di naming nel nostro paese? Grazie al network Nomen avrete inoltre la possibilità di un continuo scambio e confronto con altre situazioni internazionali. Emergono specificità nazionali o ci sono dei trend globali?
AS: Direi Alberto che, oltre al nome che dice tanto di noi in Italia (nei paesi anglossassoni è tutta un'altra storia!), Nomen è la pietra miliare del naming. Siamo nati 22 anni fa in Italia e nessuno pensava che potesse esistere una società dedicata all’invenzione dei nomi per i prodotti. Ci dicevano "ma la gente vi paga per questo?" Oggi, è diverso. Le medie e grandi aziende sono più preparate al naming; per forza, non riescono più a trovare nomi liberi!
Il naming oggi lo fanno tutti: dai singoli copywriter, che puntano tutto sul proprio “genio creativo”, alle agenzie di comunicazione che sentono l’esigenza di trattare la marca in tutti i suoi aspetti, talvolta senza le competenze necessarie per affrontare i rischi di un nome sbagliato, ai free lance che vendono creatività a poco prezzo su Internet. Per inventare una parola non ci vuole molto, certo, forse bastano anche 5 minuti. Ma spesso, troppo spesso quella parola non basta, per qualche motivo non funziona, e allora bisogna inventarne un’altra, e poi un’altra, e poi un’altra… e di questo passo, senza criteri chiari di riferimento, si può andare avanti all’infinito, e non trovare mai una soluzione.
La nostra percezione è che tuttora però le aziende ci provano sempre in interno e quando vedono che non riescono ad arrivare a un risultato idoneo, cercano davvero i professionisti.
Per quanto riguarda i trend, direi che sono piuttosto globali. Con Internet, non ti puoi più permettere di rimanere locale. Ovviamente ci sono delle specificità all'interno dei vari paesi, o dei servizi che sono quasi fondamentali in alcuni paesi e in altri meno. Per esempio, in Cina o in Giappone, tutti i nomi che presenti devono aver passato una fase di verifica sul target. In Italia non è cosi ovvio.

AC: Parlando di servizi di naming, mi ha sempre colpito l'aspetto dei servizi "affini" al naming offerti dalle agenzie specializzate (ricerche linguistiche, ricerche di marketing, analisi di portafoglio-nomi ecc.). Potresti brevemente approfondire questo aspetto?
AS: Oggi, credo che per avere qualcosa in più in un panorama sempre più ampio, bisogna poter vendere altri servizi collegati al naming, senza allontanarsi dalla nostra essenza e dal nostro posizionamento. Siamo gli unici ad avere un network cosi internazionale da permettere di fare ricerche linguistiche e culturali in tutti i paesi del mondo. I nostri corrispondenti sono formati da più di 20 anni all'aspetto linguistico dei nomi. In un mercato sempre più globale non ci si può dimenticare di verificare la leggibilità, il significato che un nome può avere nei vari paesi ma anche il suo vissuto culturale. A parte i vari tipi di ricerche linguistiche, abbiamo sviluppato notevolmente le ricerche marketing: dalla verifica del potenziale dei nomi sui consumatori, all'immagine che comunica un brand in un certo contesto, all'analisi di un settore merceologico. Ultimamente, è nata all'interno del nostro gruppo una società specializzata nelle ricerche quantitative in modo da poter rassicurare i nostri interlocutori che cercano sempre di più la prova di un risultato attraverso i numeri. L'altro campo dove è stato fatto tanto per offrire un servizio sempre più chiave in mano è la parte legale: una maggiore consulenza sui marchi, una vera tutela del portafoglio dei marchi. Come vedi, anche se il naming potrebbe sembrare un elemento minimo nel mondo del marketing e della comunicazione, i servizi e le discipline sono numerosi.

AC: C'è un settore che sforna nomi in gran quantità e che appare abbastanza "difficile" per la sua specificità. Mi riferisco al settore farmaceutico nel quale Nomen opera da anni. Potresti illustrare ai lettori del blog le dinamiche più frequenti di questo settore?
GB: Ti presento uno scenario tuttora molto diffuso: l’azienda farmaceutica sviluppa una nuova molecola, progetta un nuovo farmaco e inventa un nome ad hoc. Ma in tanti casi il nome inventato dall’azienda non arriva al mercato perché viene bloccato prima dagli organismi preposti al controllo (il Ministero della Sanità in Italia, l’FDA negli USA, per esempio). E nonostante i controlli, da una recente ricerca dell’ FDA si evince che negli USA circa un milione e trecento mila persone sono state vittima di errori nel campo della medicina, e più del 12% di questi errori è stato generato dalla confusione di nomi.
Il nome del farmaco viene rifiutato se esprime o richiama i benefici che il farmaco apporta; ma anche se il nome ne magnifica gli effetti; e naturalmente se il nome è simile a qualche altro nome di farmaco esistente, per non generare confusione nel paziente e nel medico; e ancora, il nome commerciale non può richiamare troppo chiaramente il nome generico della molecola, che è di patrimonio comune. Si può dire che il nome buono, forte e giusto per un prodotto farmaceutico è un nome studiato soprattutto secondo parametri fonetici (il suono) e morfologici (la forma, la lunghezza), più che secondo parametri semantici (il significato del nome). Meno un nome ha un significato riconoscibile, più è facile che il nome superi il vaglio del Ministero o dell’organismo preposto al controllo.
Le restrizioni sono molte, come vedi. A queste si devono aggiungere il diritto dei marchi, che tutela la novità, la distintività e l’ingannevolezza del nome, e l’aspetto linguistico e culturale (come il nome viene letto e pronunciato nei vari paesi di commercializzazione del prodotto, l’assenza di evocazioni negative). Perché in generale, il lancio di un nuovo farmaco implica anni e anni di ricerche e di investimenti, con l’obiettivo di creare un prodotto da vendere in molti paesi. Per darti un’idea di budget, secondo alcune stime americane non è raro che le aziende farmaceutiche investano tra i 200 e i 500 mila dollari per la creazione e la selezione di un nome per un nuovo farmaco. Noccioline, in confronto agli investimenti stimati intorno agli 800 milioni di dollari per un intero percorso, dalla concezione del farmaco alla sua vendita in farmacia. Ecco perché un nome per il mercato farmaceutico deve essere studiato con grande attenzione, ed ecco perché un buon nome può fare la differenza.

AC: Se c'è un prodotto che sembra fatto appositamente per il naming, questo è il profumo. Nomen ha una notevole esperienza in questo. Potresti raccontare qualche caso interessante? E inoltre, in un post precedente, riflettevo su come l'industria del vino (almeno in Italia) sia ancora lontana dal naming pur essendo, a ben guardare, legata in larga parte alle dinamiche di quella dei profumi (canali di vendita esclusivi, una certa rigidità di prezzo, attenzione al packaging, enfasi sulle essenze). Qual è la tua personale visione sul prodotto "vino" in rapporto al naming?
GB: Nomen lavora spesso nel settore dei profumi, sia in Italia che all’estero. In Italia le aziende che producono i profumi sono poche, e i marchi rimasti completamente italiani ancora meno. Un esempio interessante è la griffe Salvatore Ferragamo, con cui collaboriamo da anni. La casa di moda ha al suo interno una società interamente dedicata ai profumi (Salvatore Ferragamo Parfums), con sede a Firenze.
Ferragamo Parfums ha scelto la strada del nome italiano con i profumi Incanto e Attimo, venduti in Europa, negli USA e in Asia. Ma la scelta della lingua italiana non è una strada facile: è necessario trovare nomi che si possano leggere ovunque, e che non richiamino parole sconvenienti. Il Giappone per esempio, apparentemente così lontano da noi dal punto di vista linguistico, ha nel suo linguaggio quotidiano numerose parole identiche per sonorità a quelle italiane, ma con significati completamente diversi. Un esempio per tutti: un nome breve e positivo come AMA, terza persona del verbo amare in Italia, senza distinzioni di genere maschile o femminile, in Giappone suona come una parola che significa “monaca buddista”, ma anche come un’altra parola che significa “subacquea”, e infine come una parola che significa “donna di facili costumi”… Sembra incredibile, no?
Parliamo ora di vino: non basta un nome innovativo, dirompente, distintivo per creare una storia di successo, ma certamente un buon nome è un buon punto di partenza. In Italia il naming dei vini segue spesso criteri tradizionali o imitativi (nomi che suonano come altri nomi di vini che hanno avuto successo), oppure si vedono nomi stravaganti che parlano soprattutto al cuore di chi il vino lo ha fatto (perché vengono dalla sua storia personale) ma che dicono poco al mercato. Difficilmente in Italia nascono nomi paragonabili alla forza dirompente di Yellow Tail, una linea di vini (Australiani) di grande successo mondiale (e tuttavia di qualità medio-bassa), o di Red Bicyclette, una linea di vini prodotta in Francia e venduta negli Stati Uniti (c’è una gustosa storia di inganni e figuracce dietro a questo marchio, ti invito a curiosare). Forse in Italia il vino è ancora percepito da molti come un prodotto “tradizionale”, che non può permettersi stravaganze, pena il rifiuto del mercato. In Australia, nuovo mondo per il vino, tutto è possibile…

AC: Per finire, un nome che avresti voluto lanciare tu?
GB: IKEA, senza dubbio. Breve, facile, di suono gradevole, indimenticabile. Con un nome così si può vendere qualsiasi cosa, e loro non si sono lasciati scappare l’opportunità!

lunedì 12 settembre 2011

Tradurre 9.11 con 11.9

I giornalisti italiani ormai parlano della tragedia e degli attentati datati 11 settembre 2001 come di 11.9. Probabilmente, una decina d'anni fa non avrebbero fatto questa traduzione calco di "Nine Eleven" ricorrendo alle sole cifre. Evidentemente hanno colto qualcosa nell'essenzialità magnetica di quelle due cifre separate spesso da un punto. E si sono adeguati, ovviamente adattando il naming di questa notizia al sistema di datazione italiano.

Non so cosa ne pensate. Personalmente non lo trovo un gran segnale di salute per la lingua del giornalismo italiano. 9.11 è una sequenza di cifre che ha un significato ben preciso nella lingua inglese e nell'immaginario internazionale. L'inversione delle cifre, con il mantenimento dell'impostazione numerica anglosassone, dà origine ad un naming di notizia infelice. Preferisco quei giornali che hanno scritto "11 settembre": o importiamo un naming di notizia così com'è o lo traduciamo (con tutto quello che la traduzione comporta). Questo il mio pensiero.

venerdì 9 settembre 2011

Francesca Melli, la brandangel per non cadere nelle trappole del naming

Interviste a chi il naming lo fa #5

L'insieme di persone e soggetti che si occupano di naming può essere molto eterogeneo. Credo che questa serie di "interviste a chi il naming lo fa" stia cercando di illustrare questo assunto. Se da un lato ciò che emerge è una crescente consapevolezza attorno alle problematiche e specificità del naming, del rigore che richiede e della necessità di trasmettere questo rigore ai clienti che comprano servizi di naming, dall'altro si percepisce anche che i progetti di naming hanno dimensioni e aspirazioni assai diverse.
Francesca Melli, oltre a essere impegnata in progetti di naming, insegna pure questa materia allo IED di Milano. Grazie a lei possiamo approfondire nuovi aspetti metodologici e anche qualche gustoso aneddoto!




AC: Come hai iniziato a occuparti di naming? Quali i primi progetti, le difficoltà più ricorrenti e gli entusiasmi?
FM: Ho iniziato a occuparmi di naming circa 10 anni fa, prendendo parte a un brain storming per trovare il nome a una nuova società. Sono rimasta affascinata dalla metodologia seguita per individuare il nome più coerente al posizionamento della newco e capace di trasmetterne i valori. Durante l'intera sessione il flusso creativo non ha mai perso di vista le esigenze strategiche del progetto, senza per questo risultare ingabbiato o meno spontaneo. Ho così scoperto che questa disciplina, che unisce creatività a strategia, mi piaceva e ho iniziato ad approfondire il tema e a partecipare a tutti i progetti di naming dell'agenzia per cui lavoravo. Da allora non ho più smesso e ho creato nomi per Mulino Bianco, Pavesi, Unilever, Telecom, Philip Morris, Fox e molti altri.
Le difficoltà di un progetto di naming? Far capire al Cliente che un nome non è superman - non può fare tutto da solo! - ma ha bisogno di essere integrato e sostenuto dalla grafica, da un eventuale payoff, da uno stile di comunicazione personalizzato... Ogni progetto è una piccola sfida che mi diverte e che mi spinge a cercare ed esplorare i significati, le combinazioni, gli idiomi.

AC: Potresti raccontare brevemente del metodo di naming che segui e applichi?
FM: Anche se il naming non è una scienza esatta, esiste un metodo che serve a non perdere di vista l'obiettivo del progetto. Parto sempre dai valori della marca e, individuando due o tre assi semantici coerenti a essi, lancio il processo creativo, che svolgo da sola o attraverso sessioni di brain-storming. Poi passo a una fase di scrematura in cui elimino i nomi più deboli, a una successiva fase di verifica che cancella i nomi già esistenti o simili nelle categorie merceologiche in cui il nuovo brand sarà registrato. Infine, compio un'analisi dei diversi livelli di significato di un nome, per verificare che non vi siano letture critiche. Preparo un documento con le proposte dei nomi che raccomando, che presento accompagnati da un breve rational che ne mette in evidenza i punti di forza rispetto al brand che dovranno "nominare" e a un'immagine che aiuta a visualizzare il portato del nome. Presento sempre personalmente tutte le volte che posso, per evitare che la semplice lettura del documento riduca tutto a un "mi piace/non mi piace", che non fornisce feedback utili, ma solo frustrazione!

AC: Insegni naming e scrittura creativa alla IED di Milano. Questi due aspetti dell'insegnamento hanno o possono avere interessanti punti di contatto? Ci sono degli aspetti dell'insegnamento del naming che sono degni di nota (reazioni degli studenti, interessi particolari)?
FM: In questi 3 anni ho notato che gli studenti del MasterBrand dello IED sono sempre più interessati al naming e riescono a far loro la metodologia in pochissimo tempo. Insieme facciamo anche molta pratica e questo li diverte e sollecita il loro spirito creativo. È molto bello quando un ragazzo o una ragazza che pensano di non essere affatto creativi, riescono a entrare nel meccanismo della generazione dei nomi e scoprono di essere perfettamente in grado di elaborare proposte coerenti, accattivanti e vincenti. Il naming e la scrittura creativa hanno molto punti di contatto, entrambi servono a dar voce alle marche, toccando sia le corde razionali sia quelle emotive del consumatore ed entrando in sintonia con le sue attese.

AC: Domanda di rito: quali le tue creature che ricordi con maggior soddisfazione e perché?
FM: Una delle mie case history preferite è la genesi del nome "PattiChiari", creato per ABI (Associazione Banche Italiane) e in uso presso tutte le banche italiane come brand che riunisce i servizi caratterizzati da alti standard di trasparenza ed efficienza. Si trattava di una gara tra agenzie blasonate e le aspettative erano altissime. La prima presentazione a Roma era andata bene, ma nessuna delle agenzie era riuscita a trovare il nome perfetto, così ci fu chiesta una seconda presentazione. Abbandonando il linguaggio tipico delle banche, un po' freddo e impersonale, puntammo tutto su un nome forte e un po' fuori dagli schemi. Al termine della presentazione la sala riunioni era stranamente silenziosa, facce imperscrutabili non permettevano di capire com'era andata. Perplessi e un po' inquieti salimmo in taxi per tornare in aeroporto, rassegnati ad attendere giorni prima di avere notizie dal Cliente. Mentre passavamo i controlli di sicurezza di Fiumicino, arrivò la telefonata: avevamo vinto la gara perché avevamo saputo osare con un nome che rompeva con il linguaggio tipico delle banche e riusciva a mandare un segnale forte ai clienti. In quel momento gli unici a non essere contenti erano i poliziotti al metal detector, che ci invitarono a non bloccare la fila e a smettere di lanciare esclamazioni di giubilo!