mercoledì 28 dicembre 2011

Nomi bizzarri al supermercato: dalla pasta d'acciughe "Balena" ai Vini Velenosi


Chi tiene d'occhio i nomi e il naming è un deformato. Io almeno tendo ad esserlo e aggiusto il tiro dicendo che parlo a nome mio. Non professionalmente deformato: deformato e basta! Così mi capita a volte di vagare per le corsie dei supermercati e, anzichè provare a fare come Allen Ginsberg in A Supermarket in California o ricordarmi che sto cercando il filo interdentale, getto occhiate a etichette, colori, involucri, nomi.

Capita di fare incontri con nomi strani, o quantomeno bizzarri. Recentemente i miei occhi si sono posati sulla pasta d'acciughe "Balena" e su un'azienda di vini denominata "Velenosi". Non conoscevo questi nomi d'azienda, da quel che ho intuito sono prodotti da intenditori, con buoni/ottimi posizionamenti. Mi ha incuriosito il nome Balena tra virgolette, mentre nel caso dell'azienda vinicola ho notato la registrazione del dominio internet con il nome-aggettivo anteposto a "vini": velenosivini.com (in effetti meglio così che vinivelenosi.com).

Mi piace registrare questi casi per un motivo molto semplice: relativizzano e fanno capire perfettamente, in due secondi, con buoni esempi, l'importanza del nome all'interno del costrutto teorico di brand. Se è vero quel che diceva Mark Twain, cioè che nulla è più noioso di un buon esempio, è importante, parlando di brand, capire l'importanza relativa e non assoluta di tutti gli asset (naming, logo, design, advertising, packaging, web, presenza sul punto vendita, pricing ecc.). Ci sono dei casi in cui un'operazione di naming o re-naming si rivela importante, magari più importante della cura profusa nello sviluppo dell'identità visiva, mentre ci sono dei casi in cui l'importanza del nome è del tutto relativa. Il nome è un asset dell'azienda e come tutti gli asset può/deve essere gestito. Ce lo ha spiegato largamente anche Jean-Noël Kapferer.

domenica 18 dicembre 2011

Io non mi chiamerei Cell8

Nella zona dove abito i cognomi che finiscono in -otto sono abbastanza frequenti. Se io dovessi denominare una mia azienda, anche senza inseguire la costruzione di un brand, poniamo ad esempio una piccola azienda di trasporti internazionali, eviterei accuratamente il giochetto di chiamarla Cell8. I nomi sono destinati a viaggiare (se poi l'azienda è un'azienda di trasporti nella regione cerniera tra Ovest e Est d'Europa a maggior ragione). Il giochetto di usare la cifra al posto di "otto" è però una piccola trappola quando un nome valica un confine. Lo so che è di una banalità disarmante quello che scrivo, ma il rischio è che il mio nome prenda una forma e un suono diversi a seconda del paese in cui mi trovo. Da un lato, con la presenza di un naming alfanumerico, guadagnerei in iconicità del nome, ma dall'altro genererei sicuramente confusione. Il naming di un'azienda può e dovrebbe servire a evitare a monte qualsiasi tipo di confusione.

giovedì 15 dicembre 2011

Naming e fonosimbolismo #2: Vibram Fivefingers. (E non sempre il naming descrittivo va male...)

Sembra stia crescendo il barefoot running. Ovviamente non si tratta di una corsa a piedi scalzi, ma di un nuovo modo di intendere le calzature per la corsa: suola ridotta ad uno strato sottile (anti-chiodo ovviamente!), ricerca di una sensazione simile a quella che si potrebbe provare correndo davvero a piedi nudi. Abbiamo un po' tutti in testa Abebe Bikila alle Olimpiadi di Roma del 1960.


Non mi addentro sui benefici biomeccanici, fisiologici o psicologici ecc. che questo tipo di corsa può portare. Non è il mio mestiere, anche se inviterei ad avvicinare il fenomeno con la prudenza dovuta (il barefoot running si pone in aperta opposizione ai principi di ammortizzamento che regolano tutte le altre calzature da corsa, gioca in questa opposizione). C'è ovviamente molto marketing attorno a questo filone, al quale tutti i grandi colossi della corsa stanno dedicando attenzione e nuovi prodotti (Adidas, Asics, Mizuno, Nike, Saucony con casi più piccoli come Terra Plana).

Mi soffermo però sul prodotto più curioso di questa "famiglia", le Vibram Fivefingers che vedete bene in foto. Una calzatura con cinque dita che la nota azienda, specialista nelle suole, ha presentato per la prima volta una manciata di anni fa, oggi un prodotto imitato, tanto che mi è capitato di vedere una gustosa pagina pubblicitaria dove il prodotto in questione alza il dito medio per salutare tutti gli imitatori...


In contrapposizione a un design quantomeno unico, iconico e sfrontato, questa calzatura presenta un nome apparentemente descrittivo. Chiunque abbia letto libri sul naming (io stesso lo scrivo nel mio), avrà imparato che è bene sempre fuggire nomi che si limitano a descrivere il prodotto (e Fivefingers fa questo, descrive). Tuttavia a me piace ricercare quei nomi particolarmente descrittivi che funzionano, nonostante tutto. Eccezioni che confermano la regola, insomma. Il nome Fivefingers, con quella allitterazione e rapidità di "f" è un buon nome per un prodotto davvero innovativo (quante aziende avranno pensato un prodotto del genere ma non hanno avuto semplicemente il coraggio di svilupparlo, in fin dei conti si parte dal dato basilare, l'anatomia del piede). Nella sua lunghezza ma velocità di "f", "v" e "e" (vocale "veloce" secondo gli studi di fonosimbolismo), e pur nel suo essere estremamente descrittivo, questo nome funziona.

Ma per concludere, guardiamoci il vero barefoot running...


martedì 13 dicembre 2011

Naming e fonosimbolismo #1

Nell'immagine avrete riconosciuto il famoso esempio di Wolfgang Kohler, celebre psicologo gestaltista. Come il suo campione di intervistati, se vi venissero fornite le parole “maluma” e “takete” per nominare le due figure, sareste quasi certamente d’accordo a chiamare “maluma” la figura tonda e morbida e “takete” quella spezzettata e spigolosa. Questo esempio ricorre quasi sempre quando si introduce il fonosimbolismo.

Cosa c’entra tutto questo con il naming? Per anni, e la configurazione continua tuttora, il fonosimbolismo è stato il principale contributo teorico alla pratica del naming. In Italia, ad esempio, rimando agli studi di Fernando Dogana e al suo Le parole dell’incanto. Esplorazioni dell’iconismo linguistico. Capire come convogliare determinati attributi funzionali, psicologici o di design di un prodotto attraverso il ricorso a determinati fonemi o concatenazione di fonemi, a una consonante palatale anziché labiale, ad una larga “a” anziché ad una stretta “i” è stato il cruccio delle più articolate operazioni di naming. Oggi mi vien più facile parlare di "sound design", così come di "letter design" (gli aspetti tipografici della configurazione delle lettere, particolarmente rilevanti nelle operazioni di identità visiva o di nomi creati per il web).

Pensate soltanto a quanti prodotti per l’igiene della casa si presentano come monosillabi, con quella “i” che dovrebbe trasmettere velocità, praticità, facilità d’uso (Vim, Cif, Lip).

Questa è la puntata introduttiva di una serie dedicata al fonosimbolismo. Mi limito quindi a introdurre l’argomento, che è centrale tuttora nell'ambito del naming professionale, non fosse altro perché è ancora ben presente nelle agenzie specialistiche: basta notare quale approccio segue un’agenzia americana come Lexicon Branding (Intel, Swiffer, BlackBerry tra i nomi più noti che ha coniato) e si comprende che le discussioni attorno al fonosimbolismo applicato al naming sono ancora attuali. Nel mio libretto di qualche anno fa non ho potuto ignorare questo filone, anche se ho provato a spostare l’accento sui contributi che possono arrivare da un costrutto sociolinguistico come quello di “situazione comunicativa”, sviluppato a partire dagli studi di William Labov, e dalla rilevanza della pragmatica linguistica. Ma non mi dilungo. Tornerò a parlare di fonosimbolismo con esempi in futuro. Poi, forse, esaurita questa serie dedicata al fonosimbolismo, mi addentrerò in alcuni esempi dedicati all’apertura sociolinguistica-pragmatica al naming (già ho iniziato a farlo, ad esempio, con il post dedicato al succo Santal B.A.). Prendendo a prestito e mutuando le parole del filosofo Donald Davidson, questa apertura sociolingustica-pragmatica sembra stia lì a dirci che “è la comprensione che dà vita al significato” dei nomi di marca. Non è un significato preconfezionato col nome che ne “garantisce” la comprensione. Non c’è alcuna garanzia di comprensione nella scommessa veramente creativa della comunicazione, compresa la comunicazione a fini commerciali. E dico questo con buona pace dei pubblicitari e namers che si autodefiniscono “creativi” e di tutti quelli che confondono questo aggettivo-sostantivo sfortunatamente inflazionato con una certa capigliatura, una montatura d'occhiali, un abito, o, peggio ancora, con un accento vagamente milanese.

giovedì 8 dicembre 2011

Subbuteo. Un altro nome lessicalizzato?

L'altro giorno, cercando una parola sul DISC, Dizionario Italiano Sabatini Coletti, acronimo-naming di quel dizionario che mi regalai durante l'università ed ennesimo esempio, a mio avviso, della generale non brillantezza degli acronimi (con qualche rara eccezione come Asics "Anima Sana In Corpore Sano) ho posato l'occhio su Subbuteo, una denominazione commerciale che, per gli autorevoli autori dell'opera, ha senso includere come nome ormai lessicalizzato. (Pensato e scritto per inciso, visti gli strumenti che l'informatica ci propone, sarebbe interessante che futuri dizionari online o su disc-o offrissero a tutti una query-filtro delle denominazioni commerciali in essi incluse.) Credo ci sia uno iato generazionale, Subbuteo è lessicalizzato per una parte della popolazione che a questo particolare gioco da tavolo si è appassionata. Ora, vuoi per le mode, vuoi per la diffusione pervasiva di console, sarebbe curioso verificare chi conosce questa parola. Quello che voglio dire è che un nome lessicalizzato dovrebbe avere una notorietà elevata (sul problema della notorietà delle parole il DISC si prensenta come un buon dizionario, evidenziando in grigio quelle parole sulle quali si può scommettere di "farsi capire" abbastanza facilmente, quelle poche migliaia di parole sulle quali, ad esempio, chi fa informazione o chi scrive per la Pubblica Amministrazione dovrebbe tararsi). Ci sono dei nomi che si sono forse lessicalizzati per una stagione, poi, per i motivi più vari, possono tornare ad essere quello che erano/sono: denominazioni commerciali. Un motivo per non aver fretta di includere denominazioni commerciali nei dizionari? Ad esempio quello che succede con K-Way (cappauei, nel mio dialetto) sta dimostrando questo: un nome lessicalizzato tanti anni fa, tramite un operazione di rilancio e recupero, vuole tornare ad essere quello che era/è, una denominazione commerciale, una moda, un brand (diventare lessico, per un brand, è sintomo di elevata notorietà ma non è la migliore delle sorti possibili, anzi). Per gli stessi motivi Post-it avvicina la dicitura "brand" alla propria denominazione (lo vedete bene nel retro) e Jeep ha comunicato per anni "Jeep. There's only one". Diventare lessico è garanzia di notorietà, ma può richiedere al brand sforzi notevoli in comunicazione.

Dopo alcuni post dedicati alla lessicalizzazione, vi rimando alla nuova risorsa web selezionata, raggiungibile cliccando l'alce verde a destra: un contributo di Vittorio Coletti su marchionimi e nomi commerciali.

sabato 3 dicembre 2011

Quando i francesi s'inventarono le baladeur (ancora sulla lessicalizzazione del nome di marca)

Risale a circa un anno fa la notizia della fine del Walkman. Fine di un'epoca gloriosa inaugurata da Sony, che ha trasformato le abitudini di molti. Oggi tutti sanno che la musica portatile si ascolta con altri apparecchi di diffusione, coi cellulari, con Apple, la quale ha lasciato un chiaro segno anche su questo mercato importante.

Walkman è un perfetto esempio di nome di marca che si è presto lessicalizzato (alla stregua di Jeep, Post-it, Scotch). Sorprende oggi - anche se è cosa risaputa - la capacità della Francia di contrastare questo fenomeno di lessicalizzazione e la parallela affermazione del sostantivo "baladeur" (quasi una traduzione di "walkman" visto che "la balade" è la "passeggiata" o la "gita"). L'ho già scritto, la normativa linguistica in Francia è una cosa sentita e seria. Ne sanno qualcosa le aziende che vendono prodotti e annessi libretti di istruzioni nei mercati francofoni (Canada compreso) e personalmente rimango stupito e ammirato ogni volta di come Ikea sappia preparare un manuale di istruzioni di montaggio comprensibile senza ricorrere alle parole, mentre magari l'azienda veneto-friulana che fa un prodotto simile mi intima di "fissare i 6 barilotti nelle apposite sedi della testiera del lettino". Capite che forse soltanto una persona con anni di esperienza in un fornito negozio di ferramenta sa cos'è il "barilotto", una vite con una configurazione tutta sua per fissaggi orizzontali/verticali...

Questa mossa francese - sulla quale si può scegliere di discutere a piacimento - si è rivelata un sistema efficace per combattere l'obsolescenza dei nomi di marca lessicalizzati. Oggi che il Walkman non c'è più, sostituito da iPod e altro, in Francia scrivono "le baladeur iPod". Il nome di marca tradotto, diventato nome comune, viene quindi anteposto alla nuova marca. La traduzione di un nome di marca altrove lessicalizzato è diventata in Francia un nome comune pronto ad accompagnare le future marche di dispositivi di diffusione di musica portatili, anche quando sarà passata l'era iPod.


Per quanto riguarda Sony invece, sarà interessante capire se intenderà recuperare la portata e la storia davvero notevole del brand name Walkman.