martedì 28 febbraio 2012

Brand naming in caso di brand stretching e brand extension















Piccolo post teorico. In realtà, vedrete, passerò in rapidissima rassegna quelle situazioni in cui il naming si fa estremamente concreto e "pratico", nel senso che mi riferisco a quei casi in cui avere o non avere già un nome adatto fa una grande differenza. Innanzitutto rapido glossario su "brand stretching" e "brand extension": è qualcosa che capita a tantissime marche, vale a dire allargare/estendere la gamma e le tipologie di prodotti offerti sotto "l'ombrello" dello stesso nome-marchio. Esempio paradigmatico è solitamente Virgin (dalla compagnia aerea alle bibite, con la disinvoltura di un naming ogni volta... "vergine") o Vitasnella (dall'acqua agli yogurt passando per i biscotti). Anche brand di lusso come Ferrari possono cercare di allungarsi ed estendersi con penne, pc portatili, profumi (in questo caso si tratta di marchio dato in licenza, molto spesso). Ultimamente, scoprendo che Lavazza ha lanciato una linea di cialde di "consommè" da "produrre" con la stessa macchinetta del caffè design Pininfarina mi sono chiesto se questo non sia un caso limite della extension, dove un marchio che gode di grande awareness nel settore del caffè allarga a un prodotto davvero lontano dal prodotto di partenza (passino tè e camomilla, ma il brodo mi ha fatto un effetto davvero strano). Forse si tratta semplicemente dell'affermazione di superiorità dello standard-cialda sul prodotto offerto (e sul dilagare di cialde, porzioni monodose usa e getta che furoreggiano in tutte le salse si potrebbe aprire una lunga parentesi, che parta dall'ecologismo oggi tanto di moda).

Per tornare al legame tra brand naming e brand stretching/extension, va quindi presa in considerazione, durante ogni operazione di naming, la possibilità che la marca creata possa ambire ad allargarsi in futuro. Il nuovo nome allora deve essere sufficientemente "elastico" per supportare e sopportare lo stretching di marca verso nuovi territori di prodotto.

mercoledì 22 febbraio 2012

Emma, Arisa e Noemi: brutta cosa il cognome!


Solo un pensiero rapido sui nomi del podio, tutto femminile, di Sanremo 2012. L'avrete notato, è sufficiente leggere un titolo o un occhiello relativo alla recente edizione del Festival per rendersi conto che furoreggia il nome stand alone, detto anche nome d'arte. Ricercato, come il caso di Noemi o Arisa, oppure assai di moda come Emma (non so se vale ad un livello allargato anche in altre parti d'Italia ma qui dove abito, fino a qualche anno fa, c'è stato un revival pazzesco di questo nome). La formula normale nome+cognome sembra davvero sepolta, lasciata perlopiù agli uomini, banale. Banali loro, forse. Volete mettere? Dici Emma, dici Arisa, dici Noemi e dici solo quella lì: un brand name che funziona meglio di un'abbinata nome e cognome. E magari pensi (dovresti pensare!) a degli occhiali o all'assenza di questi. Certo, Mogol ha insegnato qualcosa. E tanti altri prima e dopo di lui. Il band naming (senza "r") è stato un brand naming ante litteram. Ho semplicemente trovato curioso che il podio di quest'anno fosse interemente occupato da nomi singoli. Si sa, per un artista il nome è importante... se poi si chiama Vinicio (grande Capossela!) non possiamo che ascoltare curiosi qualsiasi novità.

giovedì 16 febbraio 2012

Naming e... anonimato come lusso. Un'intervista all'alce

Interviste a chi il naming (a volte) lo fa #8



Riprendo la rubrica delle interviste e stavolta l'intervistato sono io. Come forse sapete, non faccio nomi di professione (qualche nome l'ho inventato pure io, soprattutto per le aziende in cui ho lavorato, ma non cerco nomi dalla mattina alla sera). Rovistando in un vecchio bauletto digitale ho trovato questa intervista che la brava copywriter Francesca Benvenuto mi fece nel 2006 per il suo bel blog "Cosa fai copy?", un sito dedicato alla scrittura professionale e al mestiere del copy in particolare. I blog servono anche a questo, a volte: come diceva Umberto Eco per la tesi di laurea "non si butta via niente".

FB: Si sa, il nome di una marca è la cosa più importante, è come dare un nome ad un bambino: lo confronti con il cognome, valuti la lunghezza, il suono, l'impressione che ne deriva. Poi sarà il bambino a dargli il carattere. Una marca funziona allo stesso modo: nome e carattere. Ma per dargli un nome, da cosa devo partire?
AC: Cogli subito un ragionamento importante e centri un aspetto fondamentale: il rapporto tra nome e nome-nel-tempo è, in effetti, uno degli aspetti che più ci interessano oggi quando andiamo a studiare i nomi. Con la differenza che, se nel mondo esistono milioni di Marc, Luca o John, di Apple, Palmolive o Focus ne esiste uno solo per categoria merceologica. Si badi, un solo nome di marca che si manifesta spesso in una pluralità di prodotti. Quello tra nome e carattere è un binomio indissolubile tanto che oggi il problema del nome è protagonista del filone di studi sulla brand personality (le marche si studiano con strumenti del tutto simili a quelli utilizzati per studiare la personalità o il carattere di una persona, le marche si "personificano" nei focus group per capirne potenzialità o lati deboli).
Venendo alla tua domanda, direi che di fronte ad una marca da battezzare devo concentrarmi sulle sue aspirazioni, sulla sua capacità di costruire valore, identità, relazione nel tempo. Possiamo individuare grossolanamente alcune fasi nella storia del naming: dal nome-etichetta (la zuppa "Campbell"), al nome come dispositivo in grado di comunicare benefici funzionali o psicologici (il detersivo lavapiatti "Svelto") alla fase attuale che prevede un nome in grado di assecondare la capacità del brand di costruire nel tempo valore, aspirazioni, relazione e identità (nel mio libro porto l'esempio di "Yaris"). In una frase, possiamo dire siamo passati dal nome-etichetta al "nome-etico" (pensa a "Philip Morris Inc." che è diventata "Altria Group", come a spostare il centro dell'attenzione su... "altro" dal tabacco).

FB: Quali sono le caratteristiche fondamentali che deve avere un nuovo nome?
AC: Si legge spesso che un nuovo nome dovrebbe essere breve, facile da pronunciare, inattaccabile da spelling errati, memorabile, suggestivo. Tutto vero. Tuttavia il requisito fondamentale si trova spesso in un campo più ostico, quello della legge. Un nuovo nome deve essere soprattutto "sano" dal punto di vista legale. Non esiste creazione separata dalla verifica legale sull'utilizzabilità del nuovo nome. Anzi, c'è da dire che il naming come pratica creativa specializzata nasce proprio dagli studi legali che si occupavano di ricerca, registrazione e tutela dei nomi di marca.

FB: Nome proprio o nome inventato? Quando si usa uno e quando l'altro?
AC: Se con "nome proprio" intendi, ad esempio, il condizionatore "Pinguino", la tendenza è quella di abbandonare questa tipologia di nomi. La ragione può essere banalmente ricondotta al fatto che i dizionari delle principali "business languages" del mondo sono ormai interamente registrati e trovare una parola-nome libera e utilizzabile è diventato un'impresa. Ecco allora l'emergere dei nomi coniati con i quali si è fatto - mi si passi l'espressione - di necessità virtù. Non solo questi nomi sono in grado di risolvere il problema della mancanza di nomi liberi nei dizionari, ma si sono presto rivelati particolarmente adatti ad accompagnare le diverse fasi di vita del brand. Questi nomi inventati si definiscono anche “di pura fonetica”: non dobbiamo mai dimenticare che gli attributi di natura fonetica riferiti al nome di marca fanno spesso la differenza. Un nome è innanzitutto, materialmente, un suono, qualcosa che vibra nell'aria e che può muovere i nostri neuroni e la nostra immaginazione. Direi quindi che la frattura nell'utilizzo di queste due tipologie di nomi che tu citi è soprattutto di ordine temporale e non metodologico.


FB: Come si inventano i nomi di fantasia? C'è un metodo, oppure - molto più semplicemente - non sono mai interamente nomi di fantasia? Mentre ti faccio questa domanda penso a qualcosa che esula completamente dalla pubblicità: penso a Tolkien e a tutto quel mondo di nomi del Signore degli Anelli e della Terra di Mezzo, ma anche Harry Potter e la Scuola di Magia. E' affascinante: mi da quasi l'impressione che dare un nome ad una cosa sia come crearla, darle la vita.
AC: Ci sono diversi metodi per inventare nomi di fantasia e spesso si può ricorrere alla combinazione tra creazione umana e creazione al computer. Non è infatti da escludere che un buon nome possa uscire da un software pensato appositamente per il naming. Riguardo la tua considerazione sul dar vita con un nome, non posso che essere d'accordo. Il nome ha a che fare con l'identità, nel senso più viscerale del termine. Identità e pensiero: non ci dimentichiamo che la filosofia e la filosofia del linguaggio in particolare hanno affrontato il problema dei nomi a più riprese. La Bibbia, il libro dei libri, è un libro di nomi. Pensiamo al valore dei nomi (dei patronimici) in istituzioni sociali come la famiglia e pensiamo alla tendenza dei media a nominare lo spazio sociale per poi poterne parlare. Ma soffermiamoci anche per un istante sul lavoro mastodontico di sistematizzazione e nomenclatura di Linneo nell'ambito delle scienze naturali. Il problema del nome attraversa tutta la storia dell'umanità. I nostri nomi di marca non sono che una curiosa manifestazione di questo problema.


FB: Perchè ti interessano tanto i nomi? Cosa ti affascina?
AC: Forse perché, come ho letto di recente, è proprio vero che oggi "l'anonimato è un lusso". Credo che i nomi mi interessino anche in contrapposizione e alla luce di questa osservazione. Il tema dei nomi è interessante perché è interdisciplinare, chiama in causa intelligenze e competenze diverse. Specularmente all'interesse per i nomi c'è anche l'interesse per quello che un nome non ha, quindi l’interesse per quanto il linguaggio non ha ancora ricondotto in termini "discreti" e quindi denominato. Credo che qui l'onomaturgia, il potere di denominare, debba farsi da parte. O meglio, in questo spazio, non di rado, si inserisce la poesia. In questi istanti, mi viene in mente una canzone di Gaber... il "Signor G" che voleva essere "nessuno".

FB: Ultima domanda di rito: dammi qualche suggerimento, c'è qualcosa che posso leggere? Oppure c'è un metodo attraverso il quale posso "trovare" dei nomi. Io, ad esempio, ho una piccola rubrica che mi ha regalato mia sorella (molto graziosa, acquistata a Pisa): al suo interno mi segno nomi di luoghi, persone o semplici parole che mi piacciono. Diciamo che mi danno qualche brivido. Tu cosa fai? Dove trovi i tuoi nomi.
AC: Da poco è uscito Che nome sei? Nomi, marchi, tag, nick, etichette e altri segni di Patrizia Calefato (Meltemi), il libro da dove ho tratto anche l'affermazione sull'anonimato come lusso. Non tratta specificatamente i nomi di marca ma affronta il problema delle denominazione da più angolature, con un approccio squisitamente interdisciplinare.
Per quanto riguarda la mia professione, non sono un consulente di naming. L'interesse per il naming è nato con la tesi di laurea, ormai cinque anni fa. Di questa tesi ho fatto un po' quello che si fa con il maiale, non ho buttato via niente. Sono arrivati in seguito un articolo su rivista (sui nomi degli yogurt Danone), un libro che ora viene adottato in alcuni corsi universitari e un paio di lezioni accademiche, qualche pubblicazione su web. Tengo vivo l'interesse di ricerca in questo modo. Tanti studenti mi scrivono perché alle prese con una tesi sul naming. Forse ho solo anticipato un po' i tempi. Tuttavia non so ancora se da grande mi piacerebbe studiarli o crearli questi benedetti nomi! Ah, una domanda ce l'ho anch'io: mi concederai un'occhiata alla tua rubrica?

venerdì 10 febbraio 2012

All'origine del naming di Volunia: volo sulla luna e "quantum leap"

In questi ultimi giorni si è fatto un gran parlare del nuovo motore di ricerca integrato con l'aspetto sociale di Internet, Volunia, l'idea del matematico padovano Massimo Marchiori, salito alle cronache per l'algoritmo "vincente" su cui si è fondato il successo di Google. Il pay-off recita "Seek & Meet", dal momento che lo specifico di questo motore di ricerca è la possibilità di incontrare persone con le quali stiamo condividendo lo stesso tipo di ricerca (ad esempio, da quel che ho capito, sarà possibile cercare la ricetta del pesto alla genovese e confrontarsi con chi sta facendo la stessa ricerca sulla quantità q.b. di pinoli da utilizzare). In questa unione di ricerca e incontro c'è il posizionamento ricercato da Volunia.

Difficile non intererrogarsi sul naming di un progetto così ambizioso. Marchiori afferma che ha pensato all'unione delle parole "volo" e "luna" e l'esperienza di "viaggio nel tempo" ("Quantum Leap", come la serie televisiva) che questo nuovo motore vorrebbe convogliare (sarà anche infatti possibile capire chi ha fatto simili ricerche in passato, ovviamente nel delicato rispetto della privacy).

Quando si cerca di lanciare un nome che ambisce a diventare megabrand globale su web è fondamentale preoccuparsi subito della disponibilità del dominio. Anche la pronuncia dovrebbe essere tenuta in considerazione (anche se Google e la sua pronuncia "locale" sembra essere la prova contraria di questo assunto). Il naming di un progetto così ambizioso dovrebbe quasi aspirare ad essere una "scatola" vuota di significati precostituiti, dal suono evocativo e pronunciabile, con il minor numero di associazioni negative: un naming pronto ad raccogliere l'eventuale successo del prodotto che decreterà, osmoticamente, anche il successo del nome.


Riguardo le potenzialità, le prime impressioni che si leggono in giro non sono eccitate. Certo siamo quasi tutti "googleizzati" ed è difficile immaginarci un approdo differente. Da un punto di vista di comunicazione e corporate identity mi permetto di notare una certa staticità e scarsa innovazione del lettering del logo, la non abbacinante originalità della faccina sorridente e, da ultimo, quella bocca-freccia che richiama un po' troppo il logo di Amazon.

sabato 4 febbraio 2012

AvaLung, un'aplologia per il nome dello zaino antivalanga

Da quello che ho potuto notare in una fiera che frequento da anni, la più importante nel mondo degli sport invernali, una delle categorie di prodotti che mostra più vivacità è senza dubbio quella che cerca di dare risposte al problema delle valanghe. Penso a sistemi come Recco (Avalanche Rescue Technology), che velocizzano l'individuazione di chi è rimasto travolto, oppure speciali zaini che, dotati di appositi boccagli e membrane brevettate, consentono di sopravvivere per qualche tempo in caso di seppellimento (il tempo solitamente necessario per l'arrivo dei soccorsi). Questo sviluppo è abbastanza normale se si considera l'aumentata enfasi sulla sicurezza nonché il crescente successo incontrato da discipline come lo sci alpinismo o il free ski o anche, più semplicemente, l'escursionismo in periodi potenzialmente rischiosi come aprile e maggio.

Tra gli zaini interessante il naming dello zaino di Black Diamond Equipment. Il nome AvaLung, richiamando apertamente il suono di "avalanche", adesca immediatamente il proprio posizionamento di "polmone antivalanga": chi sta per essere travolto da una valanga può infatti indossare il boccaglio che gli consentirà, una volta sepellito dalla neve, di respirare normalmente per un periodo variabile a seconda delle condizioni di seppellimento ma solitamente sufficiente all'arrivo dei soccorsi. Da quello che ho capito, tutto funziona grazie a un meccanismo di membrane che filtrano aria fresca dalla neve attorno e consentono di espellere anidride carbonica (in sostanza un meccanismo che consente la separazione dei flussi inspiratori ed espiratori). Le vittime di valanga infatti solitamente muoiono più per asfissia che per ipotermia o per i traumi riportati dall'impatto della massa nevosa.

Il nome AvaLung, nella sua semplicità, richiama l'universo di riferimento (alpinismo e il collegato problema della valanga, "AVALanche" in inglese) unendosi alla parola LUNG (polmone, in inglese). Fondendo questi due termini in un composto aplologico (parola macedonia secondo il nostro Bruno Migliorini, blend, mot-valise in altre lingue) dà origine a un nome nuovo che dice chiaramente cosa "fa" il prodotto in questione, senza ricorrere ad un noioso e pericoloso naming descrittivo. I nomi che si limitano a descrivere infatti non sono desiderabili. I nomi che pur descrivendo sanno essere anche nuovi sono invece delle felici innovazioni (anche quando ricorrono ad una "misteriosa" aplologia!).