venerdì 28 settembre 2012

Apple tra naming e copy-strategy: iPhone 5 definito "il più grande evento nella storia di iPhone dopo il primo iPhone"

Esce iPhone 5. Apple, in passato, ha fatto scuola di naming, non da ultimo il nome Apple stesso, che rappresentò una vera cesura col passato dei nomi dei prodotti tecnologici, spesso ostici e incomprensibili, diciamo pure assai s-memorabili. Negli ultimi anni l'azienda sembra invece aver cambiato rotta, optando per una sorta di risemantizzazione dei nomi comuni e anteponendo quella "magica i" a parole semplici del dizionario inglese, nomi descrittivi e di uso comune: pad, phone, book. In questi giorni si fa un gran parlare del nuovo "oggetto", quell'iPhone 5 che già starà turbando i sonni di qualcuno. Riflettevo sui piani di obsolescenza pianificata, normali in qualsiasi settore industriale, riscontrabili nel nome del prodotto. Banalmente, davvero molto banalmente, mi chiedevo fino a quale iPhone arriveremo prima di assistere a un renaming e rebranding di iPhone. Bisognerà superare la decina? Come vi suona iPhone 11 o iPhone 22? Sono pensieri che magari lasciano il tempo che trovano, e quasi sicuramente l'azienda di Cupertino avrà già pronta la nuova strategia di naming, parallela e accompagnatrice di una nuova strategia di linee di prodotto e della loro conseguente penetrazione nel mercato. Eppure una copy-strategy che prevede affermazioni come Il più grande evento nella storia di iPhone dopo il primo iPhone lascia intravedere una sorta di bivio che l'azienda sta forse avvicinando, se non altro nel naming: continuare a sfruttare l'awareness e l'inossidabilità del brand name consolidato da una parte e dall'altra la difficoltà di comunicare innovazione ricorrendo sempre al solito nome, aggiornato soltanto nella parte numerale. Se iPhone 5 è davvero un "grande evento nella storia di iPhone", un'innovazione vera, che meritasse un renaming radicale, alla radice quindi, non solo nella parte numerale?

Ma riflettevo appunto sulla tendenza (non solo di Apple, anche se Apple è sicuramente l'azienda più in vista) di postporre al nome un numero. Fino a quale cifra si può arrivare prima di "stancare"? Naturalmente è verò che una volta lanciato, il prodotto vive del brand principale (si scrive "inviato da iPhone" e non "inviato da iPhone 4", si dice "lo vedo su iPad" e non "lo vedo su iPad 3"), però è altrettanto vero che quel numero postposto al brand principale diventa importante nella fase di lancio (e tutti sappiamo che cosa significa e comporta la fase di lancio di prodotti come questo). Per queste ragioni mi chiedevo se un giorno, neanche tanto lontano, parlare di iPhone 9 potrà sembrare esagerato, per quel suffisso numerale troppo elevato. Magari si parlerà semplicemente di "nuovo iPhone", così come si parla di "nuova Golf". Oppure ci sarà un nuovo prodotto con brand completamente mutato. Non saprei davvero. Resta che Apple si candida sempre ad essere un'azienda di tendenza anche in ambito naming, qualsiasi cosa faccia. E qualsiasi cosa faccia, anche in ambito naming, troverà sicuramente chi è pronto a seguirne i passi. Mi pare tutto abbastanza ovvio, se di "fare tendenza" si tratta.

venerdì 21 settembre 2012

Traduzione, suono, senso e posizionamento di un brand name. Il brand naming in Cina #2

Proseguo sulla via verso la Cina. Qui accanto trovate l'immagine dell'incarto di un celebre snack dolce e del corrispettivo incarto cinese. Contestualmente trovate pure la trascrizione in idiogrammi unita a una trascrizione fonetica in caratteri latini e, infine, il significato del nuovo brand name. L'immagine accanto rappresenta un veicolo estremamente interessante per circolare negli universi di senso e suono del brand naming in Cina. Vi rimando poi, sempre per quel che concerne la trascrizione fonetica in caratteri latini del brand name in cinese, a questa pagina. Per chi voglia avvicinare il brand naming in Cina appare chiaro che la riflessione teorica si attesterà sui seguenti punti/assunti/caposaldi:

1. i caratteri latini non comunicano granché alla maggior parte della popolazione cinese, quantomeno a quella larghissima fetta che ancora non mastica almeno l'inglese.
2. Si può optare per nomi che "mimino" il suono occidentale (Nike, trascritto foneticamente con "Nai Ke"), parzialmente vicini (BMW che diventa "Bao Ma") o nomi completamente lontani dalla correspettiva pronuncia "occidentale" (mi pare il caso dell'immagine dello snack sopra riportata).
3. Si deve fare i conti con una mentalità diffusa che ricerca nel nome del prodotto determinati caratteri ricorrenti ("Li" ad esempio appare spesso nei nomi e sta per "potenza", mentre "Xi" per "felicità, gioia").
4. Diventa fondamentale raggiungere un equilibrio tra suono-significato-posizionamento e quindi adoperarsi per un mix quasi perfetto di fonetica-semantica-marketing.
5. Uno stesso suono "mimato" può prendere vie di caratteri cinesi diversi, e diventa fondamentale, davanti a più caratteri che hanno simili pronunce, optare per il più adeguato dal punto di vista del significato.
6. Il suonare immediatamente bene, in modo autentico e originale all'orecchio cinese diventa allora il motivo della sfida di chi ricerca un nome per un brand da lanciare e esportare nel mercato cinese.

Siamo davvero di fronte a un lavoro arduo, che abbraccia spostamenti minimi e strategici suoi suoni, sulle sfumature di significato, sul passaggio tra alfabeti e sistemi di scrittura radicalmente lontani. Il tutto senza dimenticare quelle prerogative che qui, nel mondo  cosiddetto occidentale, si danno per scontate in ogni operazione di naming, vale a dire l'aspetto di marketing (positioning) e l'aspetto legale. Insomma, un lavoro davvero proibitivo, da approcciare con estrema prudenza se non si vuole rischiare di essere... lost in translation. Naturalmente diventa un lavoro impossibile per chiunque non conosca la lingua d'arrivo. Tuttavia, da qui, possiamo iniziare a capire quali sono le possibilità e le insidie più comuni, quali sono i casi concreti che ci possono insegnare qualcosa nell'erta via del naming in Cina.

venerdì 14 settembre 2012

Com'è la Coca-Cola a Shenzhen? Il brand naming in Cina #1


Vorrei prendere spunto da questo non recentissimo articolo del New York Times per aprire un nuovo filone di post di questo blog: un percorso, sicuramente ad ostacoli, nell'affascinante mondo della traduzione/ricreazione del brand name in cinese. Si tratta di un argomento molto sentito dalle aziende italiane e comunque dai brand occidentali in genere, sia perché riguarda un mercato potenzialmente vastissimo sia perché impatta nel mercato principale che sale agli onori della cronaca quando si pensa a problematiche di tutela legale e di contraffazione del marchio. Il passaggio chiave dell'articolo del NYT è, a mio avviso, il seguente:

And so the art of picking a brand name that resonates with Chinese consumers is no longer an art. It has become a sort of science, with consultants, computer programs and linguistic analyses to ensure that what tickles a Mandarin ear does not grate on a Cantonese one.

Sono righe che stanno a dimostrare tutte le difficoltà di avvicinare il lavoro sul nome di azienda, di marca e di prodotto in un paese come la Cina. In passato si sono valutate molte strade di traduzione, traslitterazione, traduzioni letterali o pseudotraduzioni, magari inseguendo un "addomesticamento" dei nomi occidentali nel mercato asiatico. Quello che scopriamo leggendo l'articolo di Michael Wines è un mondo di rompicapi affascinanti, che toccano le diverse sfere della lingua, della comunicazione verbale e visiva e che chiamano a raccolta competenze plurime. In fin dei conti è proprio questo il bello e il difficile dell'arte-scienza del naming: vivere in un'area indefinita che copre linguistica, sociolinguistica, semiotica, fonetica, marketing e diritto. Tenere assieme tutte queste competenze non è un lavoro facile, questo assunto di base credo che oramai sia chiaro a tutti i lettori del blog.

sabato 8 settembre 2012

Dada, quel naming così semplice e memorabile avvolto dal mistero

No, non parlo dell'importante società di servizi operativa in ambito web. Naming e arte vanno a braccetto. Già ho sostenuto qualcosa di simile e parlando del Dada non si può che ribadire questo concetto. Il movimento Dada, nato nella seconda metà degli anni Dieci in Svizzera, quando altrove imperversava la Prima guerra mondiale, tornò molte volte sull'atto di nascita di quella parola. Ancor oggi non si sa di chi sia la paternità. Hugo Ball? Tristan Tzara? Eppure quella scelta, quella parolina semplicissima, bisillabica, data dalla ripetizione di una delle primissime sillabe pronunciate dai bambini, era destinata a fare molta strada. Sappiamo la rilevanza del movimento Dada, il suo incancellabile apporto nella storia dell'arte (pur partendo da posizioni apertamente anti-artistiche). Qui ci soffermiamo naturalmente sul naming per ribadire un concetto molto semplice, cioè che una coscienza dell'importanza del nome è pervasiva in moltissimi ambiti e non è soltanto requisito dei nostri nomi di marca, prodotto o azienda. Può sembrare banale affermarlo e ripeterlo. Ma a volte può sfuggire come questa coscienza dell'importanza del naming fosse in realtà già radicata in altri ambiti, diversi da quelle delle marche commerciali. Il problema del brand o product naming si pone relativamente tardi, sicuramente più tardi, ad esempio, di questa parolina semplicissima che rimanda al cavallo a dondolo. Due sillabe, facilità di pronuncia, assenza di connotazioni negative, una "semplicità di spirito" pronta ad accogliere un intero movimento artistico: che ci avessero pensato i dadaisti quando optarono per Dada? Se ci fosse una gara per il naming più facile da ricordare, forse il nome Dada la vincerebbe...