sabato 26 dicembre 2015

Gabs oppure O bag: tra le borse due esempi di naming autoreferenziali, per ragioni diverse

Due marche di borse abbastanza gettonate propongono un naming che sembra partire e ritornare alla categoria merceologica stessa "bag" o "bags", al plurale. Mi riferisco sia alla borsa ritratta qui accanto, la O bag, già abbastanza diffusa, ma anche a un nome come Gabs che è quasi palindromo - e comunque anagramma - di "bags" ma che rinvia pure alle prime tre lettere del cognome del designer Franco Gabbrielli. Mi pare un fenomeno interessante (in passato avevamo visto anche le T-shoes, per ricordare un esempio su questo solco). Voglio dire che è interessante come i nomi girino attorno all'idea, al suono, alle lettere della categoria merceologica di riferimento, cioè "bags".

sabato 19 dicembre 2015

Chi l'ha visto? Un naming restrittivo

In termini di marketing "Chi l'ha visto?", il nome-titolo della popolare trasmissione televisiva Rai, è un naming restrittivo, nel senso che non di sole persone scomparse si parla in questa trasmissione. Spesso infatti si parla di persone morte, a volte morte da molti anni. Forse l'intento originario era davvero quello di dare un servizio nel caso di scomparsa di una persona, e comunque a tutt'oggi la trasmissione mantiene questo aspetto "di servizio", soprattutto quando cerca di favorire il ritrovamento di una persona di cui si sono perse le tracce. Allo stesso tempo era chiaro a tutti che era difficile se non impossibile calamitare il pubblico dando solo notizie di persone scomparse, una descrizione dei vestiti al momento della scomparsa, l'ultimo avvistamento, segni particolari, una sintesi de farmaci che erano soliti assumere ecc. Di qui allora la piega "gialla" presa dalla trasmissione, evidente dai tagli della regia, dalle musiche, dal tono di voce degli inviati, dalle diverse porzioni di tempo dedicate alla parte di servizio e a quelle dedicate alla ricostruzione, all'indugio sui particolari, alla retrospettiva su persone morte magari da tempo. Quando poi la trasmissione parla di persone morte - persone un tempo scomparse e poi morte - diventa qualcos'altro e il suo nome pure diventa qualcos'altro, qualcosa di molto stretto.

sabato 12 dicembre 2015

Un format sulle abitudini alimentari di studenti fuori sede? Chiamatelo "Frigo"

Anche il naming di una trasmissione televisiva (o di un film, di un disco, ecc) è un'impresa bella e buona e per niente facile. E non è sempre vero che il vocabolario non aiuta, che tutto è già stato fatto e pensato, registrato o evocato. Naturalmente per un film o un disco ci può stare una maggiore libertà (mi pare esistano ad esempio film con lo stesso titolo o quasi, ma potrei sbagliarmi). Diverso è il discorso dei cosiddetti format televisivi, per i quali già la parola "format" ti dà l'idea di un prodotto vero e proprio da confezionare (con logo, paratesti, colori, un bagaglio di immagini ricorrenti) e magari, se possibile, pure esportare. A queste ore del sabato mattina su Rai Due passa "Frigo", una trasmissione dedicata alle abitudini alimentari di studenti universitari fuori sede. Il naming mi è parso efficace: è breve, usa una parola comune, comunissima, un bisillabico "facile" che rimanda a un protagonista dell'arredo domestico e, come metafora, a tutto il circuito dell'alimentazione. Insomma, mi è parso subito un naming per la TV ben fatto (non ho guardato se tra gli inserzionisti pubblicitari nella fascia oraria di quella trasmissione ci fossero poi marche di elettrodomestici, surgelati, prodotti freschi ecc.)

domenica 6 dicembre 2015

"Nuova Audi A4", quando non c'è il nome nuovo

A volte mantenere un nome, come spesso capita nel mondo delle auto, è un bel vantaggio: c'è già, non ci sono più di tanti problemi almeno nella scelta del naming, si procede spediti in un solco già segnato. Pensate solo al nome "Golf" e a quanti decenni ha attraversato. Tuttavia se un prodotto è innovativo o quantomeno presentato come tale, c'è anche il rischio che il mantenimento del nome possa essere una sorta di zavorra (non è questo il caso di operazioni in area "vintage", come il rilancio della 500 Fiat). Il naming allora non interviene, ma a livello pubblicitario si mette in atto una serie di piccoli stratagemmi consolidati, apparentemente di una semplicità disarmante, eppure ritenuti importanti. Se vi capita ad esempio prestate attenzione allo spot televisivo della nuova Audi A4 e notate come si chiude, con quel calcare e sottolineare la dicitura Nuova Audi A4, intimando a non chiamarla semplicemente un'A4: naming senza naming, insomma.

sabato 28 novembre 2015

Origine del nome Penny per gli skateboard in plastica

"Fun Starts On A Plastic Boards". Così vuole il sito web di Penny, marca australiana di "plastic skateboards". Si tratta della tavola del momento (già da un bel po' di tempo, a dire il vero), imitata, copiata e diffusa su scala planetaria. Come spesso succede nel mondo dei divertimenti "lifestyle" su rotelle si assiste al classico fenomeno di lessicalizzazione del nome di marca (così come con "Rollerblade" o, per fare un esempio in altro ambito, con "Scotch"). Ho sempre pensato che il nome Penny derivasse da una faccenda di monete, ma in realtà nella pagina Wikipedia apprendo che "Penny Skateboards was named after Ben Mackay's sister, Penny", quindi dal nome della sorella del fondatore. Probabilmente l'associazione con la monete è stata comunque valutata, anche se questi skateboard in plastica - perlomeno quelli della Penny - non sono affatto economici. Insomma, scopro ora che questi skateboard "short cruiser" o "mini cruiser" non prendono il nome dalle monete bensì da un nome di persona. Curioso. Ma in fondo chissà se è davvero così. E curioso infine sapere che in Cina, in ambito produttivo e sicuramente a causa di quei colori così brillanti che contraddistinguono le loro plastiche, abbiano preso il nome di "candy boards". E curioso sapere che la marca delle sgargianti caramelle Haribo abbia particolarmente attecchito tra chi si diverte facendo qualcosa su rotelle...

sabato 21 novembre 2015

Ma alla fine come si pronuncia Saucony?

Nel mio dialetto questa popolare marca di calzature, inizialmente legata al mondo della corsa (pardon, al mondo del "running"), potrebbe prestarsi a derive di pronuncia quasi imbarazzanti, soprattutto se l'accento è fatto cadere sulla "o". C'è molta incertezza attorno alla pronuncia di questo brand name e l'incertezza forse è salita di pari passo con la crescente popolarità del brand, fuoriuscito dai territori più specialistici della corsa per farsi marca di moda. Accade spesso così e diciamo che questo è il sogno proibito di ogni marca che nasce sportiva e vuole poi diventare qualcos'altro. Ora è evidente come Saucony abbia preso delle quote di mercato per anni in mano a New Balance, altra marca legata al mondo della corsa o "running" che dir si voglia (ma chissà perché "running" e non "swimming"...). L'incertezza attorno alla pronuncia di un brand name è un caso abbastanza ricorrente. Noto dalle statistiche d'accesso a questo blog che molti arrivano qui cercando la pronuncia corretta di "Saucony" e ricadono in un vecchio post. Volevo dire a tutte queste persone interessate che esistono risorse come il video di YouTube qui sotto, il quale potrà sciogliere una volta per tutte i loro dubbi. Questo per gli ortodossi della pronuncia. Poi si sa che si può vivere tranquillamente lo stesso. Ci sono diversi video di questa serie PronunciationBook o altri di simile impostazione: ad esempio, avete mai sentito la pronuncia corretta di "Tortoise"? Mica facile la tartaruga...


sabato 14 novembre 2015

Se anche "The Economist" dice la sua sua sulle tendenze attuali del naming

Vi invito a leggere l'articolo apparso nel cartaceo di "The Economist" e ora anche qui. Se se ne occupa "The Economist" significa che il problema del naming effettivamente c'è. Si parte da The Nine Billion Names of God di Arthur C. Clarke per parlare quindi di sovraffollamento, di intasamento, di difficoltà a trovare dei nomi nuovi in un panorama popolato dalle start-up fungo. La visuale è quella anglosassone, lucida e tranciante, ma nonostante l'autorevolezza della testata uno può dissentire in alcuni punti o comunque nell'impostazione di fondo. Dopo aver fatto la propria personale carrellata sulle tendenze del naming attuale, smascherando gli aspetti più ridicoli e le mosse più goffamente affannate dei namers, chi scrive l'articolo giustamente conclude che tutto questo indaffararsi per trovare sempre nuovi stratagemmi per denominare fa rimpiangere certe pratiche di naming antiche, come quando una banca prendeva il nome dai fondatori o da una serie di lettere (sigla). Si legge in chiusura "The biggest mistake is to expect too much. Great companies can survive boring names but even the best names cannot save dismal companies". Bella forza, verrebbe da aggiungere. C'è anche un appello al buon senso da parte del giornalista, che può starci. Così come alla possibilità di intravedere una faccia, dietro al nome.

La realtà dei fatti è però diversa e più complicata di come la fa "The Economist", che pure partiva proprio da una constatazione di complessità: spesso il successo di determinate aziende, unito ai trend del naming, alle estetiche in voga di un dato periodo ci fanno piacere un determinato nome e un determinato stile nominale. Ma è il successo che fa la fortuna. Se notassimo un gran successo di aziende denominate a partire dal nome del fondatore saremmo tutti qua a dirci che quella è la strada giusta ecc. Se Google e Yahoo fossero stati due flop completi allora non staremmo qui a parlare del fatto che sono nomi interessanti e ben fatti, che hanno fatto tendenza. Insomma, uno può rimpiangere i tempi e i trend che vuole. La realtà è che i nomi servono ancora e non è affatto facile trovarli, a volte, e per questo ogni strada è sempre aperta. Magari verrà un mondo dove i nomi non saranno più così importanti, saranno più impalbabili, aleatori, volatili e non ci saranno più di tante dispute legali. Sto solo facendo un esercizio di immaginazione. Tuttavia questo mondo mi sembra ancora assai lontano. Potrebbe esser un tema di un racconto di fantascienza di un nuovo Arthur C. Clarke.

sabato 7 novembre 2015

Zoomer Dino!

Ci mancava una performance aggiuntiva dal sederino di Zommer Dino Zoomerdino, cioè questo giocattolo a lato, e poi il naming sarebbe stato ancora più calzante! Talvolta la struttura o architettura di un nome si porta dietro delle "radici" (in questo caso la parola Zoomer- che introduce tutta una serie di giocattoli della serie) che poi abbinate a dei suffissi danno vita a dei nomi quantomeno buffi. Zoomer Dino, o Zoomerdino per gli amici, mi pare un esempio simpatico di questa situazione. Chissà se queste riflessioni anticipano il lancio di un prodotto che si immagina già per il mercato internazionale (naturalmente in inglese il problema dell'esito buffo non si pone), se vengono temuti certi effetti nel mercato internazionale delle lingue e delle pronunce oppure se si guarda con entusiasmo e curiosità all'effetto che la denominazione produrrà in un paese come l'Italia, ad esempio. Nello spot pubblicitario la velocità dello speaker rende tutto ancora più divertente! E chissà se a voi vengono in mente altri esempi su questa scia. Zoomerdino! Al di là di questo, nel settore toys quella dei dinosauri è una tendenza che davvero non sembra destinata ad affievolirsi.

sabato 31 ottobre 2015

Achtung! Aspetti e ricadute socioculturali del naming

Il processo che porta alla scelta della denominazione di un prodotto richiede sempre prudenze e cautele. Spesso queste si concentrano attorno ad aspetti di natura legale (semplificando: qualcuno potrebbe intentare una causa per una data denominazione perché troppo simile ad un'altra denominazione?). Tuttavia non andrebbero mai tralasciate alcune riflessioni e verifiche sul piano linguistico e quindi su quello culturale. L'altra sera mi passava sotto gli occhi distrattamente lo spot del giocattolo "Otto il Maialotto che fa il Botto". Mischiavo forse malamente in testa la ricezione di questo spot con alcune riflessioni che riguardavano le recenti dichiarazioni dell'Oms sul consumo di carne, certi tabù alimentari legati alla religione, ma soprattutto il fatto che "Otto" sia un nome proprio tedesco e infine la predilezione tedesca per la carne di maiale (in realtà i dati parlano di una progressione storica discendente nel consumo pro-capite di carne di maiale da parte degli abitanti della Germania). Tutto questo grumo di pensieri mi ha portato a concludere che forse una tale denominazione dimostra qualche lacuna sul versante della riflessione socioculturale. (Escludo di accennare poi al funzionamento e allo "scopo" del giocattolo in questione, visto che non è tematica di questo blog.)

sabato 24 ottobre 2015

Origine del nome Yoox

Nella rete pochi gruppi di lettere hanno avuto fortuna come la doppia "o" che si trova tanto in Google quanto in Yahoo, solo per citare due colossi. La doppia vocale, che si può leggere anche come un 8 rovesciato e quindi come simbolo di infinito, compare anche in un felice branding nato e cresciuto su web diversi anni fa. Mi riferisco a Yoox, l'azienda con sede in area bolognese e leader nell'ecommerce di moda e design. Il nome Yoox infatti usa la doppia "o" come collante di Y e X, lettere simbolo dei cromosomi determinanti il sesso e quindi simboli dell'universo femminile e maschile, i due universi che vanno a formare l'immaginario e il mercato di riferimento della moda (nonché due comodi filtri se ci accingiamo ad acquistare online). Il risultato finale è un nome che suona internazionale, tecnico e glamour al contempo, richiamante il pronome "you" e quasi evocante un'esclamazione di gioia. Tutto in quattro lettere, per la gioia del dominio internet (yoox.com), della digitazione, del posizionamento. L'azienda - e con essa il nome - è nata quando ancora il panorama non era affollatissimo, ma va dato atto che nel naming ha avuto una vista di lungo, lunghissimo periodo.

sabato 17 ottobre 2015

Appunti sul naming numerico o alfanumerico

Creare brand coi numeri è una pratica frequente. Pensiamo al profumo 1881, all'azienda di abbigliamento sportivo 686 di cui qui accanto riporto il logo (ho citato due naming numerici palindromi sinora!), alle aziende di automobili che quasi si spaccano in due, con quelle che da anni prediligono il naming numerico (Peugeot è una) e altre che invece non l'hanno quasi mai praticato (Volkswagen, se non erro), con una terza via di naming alfanumerico (Audi, Citroën: A1, C1, A2, C2, A3, C3, A4, C4 ma anche Q3, Q5 o Q7). Anche aziende-mondo davvero particolari come Boeing e Airbus nominano i loro aerei in modi alfanumerici, sino a far diventare questi ultimi ritrovati dell'avionica dei simboli (si pensi all'Airbus A380). Il naming numerico o alfanumerico ha dei vantaggi, perché può risultare facile, simpatico, persino originale (in un mondo che predilige i nomi di lettere, scegliere questa strada può essere un meccanismo di distinzione, in un mondo invece popolato da nomi numerici diventa distintivo scegliere un nome fatto di lettere). Un lato debole - si capisce - potrebbe essere nella pronuncia, nel senso che un nome come quello del logo, se non veicolato e pilotato dall'alto con cura maniacale, potrebbe diventare "six hundred eighty-six" o "six eight six" o per un italiano "sei otto sei". Lo stesso profumo 1881 si sentiva pronuciare "diciotto ottantuno" o "milleottocentottantuno". Sarebbe interessante però, al di là di questi aspetti legati alle diverse pronunce dei numeri nelle varie lingue, capire se optare per un naming numerico (o alfanumerico) ha determinate ricadute di percezione a seconda del contesto comunicativo.

sabato 10 ottobre 2015

Titolazione giornalistica come pratica di naming (Mondazzoli per dirne una)

Già altre volte si è detto: per molti aspetti, nel mondo dell'informazione, titolare è una pratica di naming. La notizia è una merce peculiare, che forse sta cambiando natura negli ultimi decenni e che spesso necessita di un nome per essere più agilmente veicolata. Ci sono titoli e naming condivisi, come può essere quello della perturbazione meteo che ci tiene in scacco in un dato periodo dell'anno o come "aviaria" o il caso politico di turno (avrete notato come spesso anche nei giornali radio si senta, "l'emendamento ribattezzato XXX da Tizio o Caio"). Ci sono poi dei quotidiani che si esercitano molto in una titolazione "proprietaria" e originale, sino a ricercare nel titolo una sintesi interessante alla quale va riconosciuto talvolta un certo pregio. Penso a "La Gazzetta dello Sport" che spesso si esprime in simili termini, aiutata anche dalla stampa multicolore dei titoli (una stessa parola è stampata in due colori diversi e così spezzata), ma anche a "Il Manifesto", che in realtà non ha mai abbandonato un certo gusto di titolazione, sfruttando per le proprie prime pagine né più né meno che l'abbiccì dell'advertising e facendo attenzione all'interazione tra visual e copy. Recentemente, in seguito alla notiziona dell'acquisizione da parte di Mondadori della Rcs Libri ("Mondazzoli", a proposito di naming), il quotidiano è uscito con un semplice raddoppio della lettera "s": "La cassa editrice". Semplice, diretto, efficace sicuramente dal loro punto di vista. (Naturalmente non è questo il posto per aprire un dibattito su un'operazione considerevole e degna d'attenzione, ma che comunque era nell'aria e andava messa in conto, soprattutto dal lato di Rcs. Purtroppo in Italia ritornano sempre in auge le vecchie zuffe per cui ci si appassiona a discutere anche sul colore del latte anziché sulle sofisticazioni dei suoi derivati.)

sabato 3 ottobre 2015

Come si dice Prufrock spa

Lo scorso anno ho pubblicato un libro di poesia, Traviso, per le edizioni Prufrock spa. Prufrock spa è una casa editrice gestita da Luca Rizzatello che pubblica principalmente poesia, ma anche realizzazioni video e multimediali ed è attiva nell'organizzazione di incontri, laboratori e seminari sulla scrittura e la letteratura. Questi dati sono soltanto introduttivi, ma mi servono appunto per introdurre il discorso e dire che le questioni del naming sono ben più estese di quelle dei nostri prodotti da grande distribuzione (in ambito letterario pensiamo anche alla questione degli pseudonimi o alla "semplice" titolazione di un libro oppure al già affrontato tema del naming di una collana editoriale). Mi è capitato spesso di sentire storpiato il nome di questa casa editrice, giocato naturalmente sull'ambiguità possibile di "spa" (Società per Azioni? No, "spa" inteso come termine di riferimento del termalismo). La maggior parte delle persone si limitava a dire o scrivere "Prufrock", dimenticandosi di "spa". Non parliamo di chi si limitava a "Prufrock" ma togliendoci pure la "r" e trasformando tutto in "Prufock". Ho suggerito a Luca Rizzatello un tutorial per guidare nella pronuncia del nome esatto e provare a risolvere quest'incresciosa situazione. Nel giro di qualche ora è nato questo breve divertente video. Buona visione e soprattutto buon ascolto.




sabato 26 settembre 2015

Sulla fortuna di alcuni suffissi (come "Air" ad esempio)

Qualcuno penserà che da qualche settimana a questa parte abbia preso di mira Apple. In realtà non è così, ma per una serie di circostanze, ultimamente, quando mi attivo quei pochi minuti per cercare l'argomento del post da scrivere, lo sguardo si posa sempre su aspetti che hanno a che fare con quest'azienda. Il nome iPad Air, dato alla quinta generazione di iPad, suona infatti così vicino alla realtà di immaginario di Nike, altra azienda americana che ha fatto del suffisso "Air" un baluardo. I suffissi - abbiamo già avuto il modo di scriverne in passato - sono pienamente coinvolti nella realtà del naming. Se nel caso dell'azienda di calzature e abbigliamento "Air" è legato alla leggerezza, nel caso di iPad "Air" ci si ricollega sicuramente alla leggerezza, tuttavia per sottolineare anche un design più sottile. Strano però che la fobica attenzione che i brand si riservano per nomi simili non trovi analogia in suffissi addirittura identici! In fondo stiamo parlando di due tra le aziende americane più note al mondo, anzi, di due delle aziende più note al mondo tout court. Probabilmente, in certi casi, l'imitazione è tollerata o forse addirittura ricercata.

sabato 19 settembre 2015

Origine del nome Amiga (sull'ordine alfabetico in un contesto competitivo)

Stavolta parliamo di un brand che non c'è più. Eppure chi tra quelli che smanettavano negli anni Ottanta e Novanta non se lo ricorda? I prodotti Amiga, venduti per oltre un decennio dalla Commodore, presentavano dei tratti veramente innovativi, ereditati poi da altri sistemi che "ce l'hanno fatta" e che tuttora abbiamo davanti agli occhi ogni giorno, in forme naturalmente mutate. Anche il modo di presentare i prodotti di Apple, se guardiamo il video con Andy Warhol come testimonial linkato alla fine, ha ben poco di nuovo. Anzi, è in fondo profondamente antiquato ed efficace: una televendita d'autore senza possibilità di acquisto immediato. E le storie di Apple e Amiga sono legate anche nel nome. Come si legge nella pagina Wikipedia, il nome Amiga, parola spagnola per "amica", fu scelto proprio per stare davanti a Apple in ordine alfabetico nelle liste di produttori di computer. Non ricordo dove ma da qualche parte lessi che in una sorta di selezione darwiniana di nomi pure l'ordine alfabetico conta e i nomi che iniziano per A solitamente sono più fortunati di quelli che iniziano per Z. In questo caso non sembra che la regoletta abbia contato, ma i motivi saranno altri, perché il prodotto era centrato per il tempo e pure il modo di presentarlo ha fatto scuola a suo modo. Guardatevi questo video con Warhol!

sabato 12 settembre 2015

Apple Pencil e la nuova estetica del naming

Non è incredibile che l'azienda che decise coraggiosamente (per l'epoca) di chiamarsi "Mela" oggi chiami i propri prodotti - concedete le goffe traduzioni a solo scopo esemplificativo - "iTelefono" o "Apple Orologio" o "Apple Penna"? Una delle poche certezze che trovavo ovunque nel 2001, quando mi accingevo a preparare la tesi di laurea sul naming, era che se produci laptop è bene che tu non chiami il tuo brand Laptop e se produci anelli è meglio che tu non chiami la tua marca Anello (a dire il vero, ed è questa una cosa inquietante, l'esempio che memorizzai parlava proprio di una penna). Eppure la stessa Apple ha invertito le regole, non senza una nuova versione del coraggio che fu, e al recente Apple Event settembrino è arrivata la Apple Pencil. Incredibile, però. Sembra l'altra faccia del coraggio di essersi chiamati "Mela", come a ribadire che continueranno a chiamare nuovi prodotti con il loro nome da dizionario, senza nemmeno il prefisso "i-" davanti. Queste attribuzioni di nomi comuni, comunissimi, ai nuovi prodotti dell'azienda di Cupertino rappresentano a mio avviso una curiosa nuova estetica del naming: con un testacoda siamo passati dalla creatività e lateralità del nome applicata a prodotti più o meno creativi alla banalità del nome applicata a prodotti che si presentano sempre come altamente innovativi e in grado di resettare ogni volta l'esperienza del consumatore. Sottotraccia rilevo, almeno nel medio periodo, quasi la volontà di riscrivere le regole linguistiche e di percezione del mondo che ci circonda con i suoi oggetti, risemantizzarlo, con un piglio sicuramente coraggioso, come detto, ma a tratti sfrontato, totalizzante, quasi emblematico di uno strisciante pensiero unico. Lo scrivo qui sapendo di essere impopolare, in un blog frequentato anche da chi lavora in agenzie pubblicitarie e che quasi sicuramente starà leggendo queste righe in compagnia di una mela smangiata e luccicante con una fogliolina sopra orientata in senso di crescita.

domenica 6 settembre 2015

Nascondini ovvero la forzatura del plurale

Mulino Bianco, si sa, nel naming ha fatto scuola, sin dal nome "Mulino Bianco" stesso. Ricordo che doveva chiamarsi "Mulino" soltanto il brand di Barilla, ma poi da ricerche qualitative emerse come la parola "Mulino" potesse contenere anche non graditi rimandi all'impurità e allora si rese tutto più pulito con l'aggiunta dell'aggettivo "Bianco", asettico quanto basta a garantire pulizia e evocativo all'occorrenza. Il caso fece scuola, ma nei nomi Mulino Bianco è sempre attiva e interessante da analizzare. Ultimamente escono spesso nuovi prodotti e Banderas è impegnato ormai a tempo pieno negli spot. Il più recente lancio, i biscotti Nascondini, contengono nella loro anima, oltre al "cioccolato da mordere", anche una strana volontà di forzare il plurale di "nascondino". Ne emerge un nome familiare, giocoso ma allo stesso tempo inconsueto. Si conferma poi la tendenza al ricorso al plurale nei nomi di Mulino Bianco, un'abitudine interrotta in rari e interessanti casi, come quello del "Biscottone", già analizzato qui.

lunedì 31 agosto 2015

Appunti di verbal branding con il payoff di Unieuro

Il "verbal branding" potrebbe essere definito come le attività di branding, quindi di processo di creazione di identità e valore di marca, perseguite attraverso elementi verbali. Sotto certi aspetti il nostro naming potrebbe essere considerato il caso "principe" di verbal branding, anche se non è il solo. Payoff, titoli, slogan, lo stile discorsivo e il tono, il dizionario e il lessico a cui attinge una marca vanno a formare l'universo verbale della marca (nei vari media in cui la marca va ad abitare, dove si deve spesso mantenere una coerenza di base con rispetto della specificità del medium). Dopo il nome, il payoff o baseline è una delle espressioni più immediate di verbal branding, sicuramente tra le più memorabili. Si dice Nike e si pensa anche "Just do it", "Barilla" e si ascoltava a seguire "Dove c'è Barilla c'è casa". Il verbal branding si distingue inoltre da tutto il lavoro sul visual che va invece a costituire la visual identity della marca.

In questo quadro, è interessante ciò che ha fatto Unieuro con il nuovo payoff "Batte. Forte. Sempre." Questo infatti si può leggere come unica frase. Allo stesso tempo, però, si apre alla polisemia (battere del cuore, battere la concorrenza), all'ambivalenza avverbiale/aggettivale di "forte". Si integra con l'emblema di Unieuro che rassomiglia a un cuore. Un bel lavoro "sistemico", insomma, come dovrebbe essere qualsiasi lavoro di comunicazione davvero integrata.

lunedì 24 agosto 2015

Ancora sul renaming di Calfort in Calgon

Certi renaming, ovvero il cambiamento di nome, sembrano difficili da digerire. Questo pare essere il caso di Calfort, prodotto anticalcare per "antonomasia" e, come molti sanno, passato al nome Calgon diversi anni fa. Mi è capitato al supermercato di sentir dire Calfort e credo che tra le mie cerchie stesse si faccia ancora fatica a usare Calgon. A sostegno di questo dubbio sulla difficile digeribilità di certi renaming arriva il jingle dello spot che recentemente ha recuperato il vecchio claim musicato "La lavatrice vive di più con..." sostituendo la parola "Calfort" con "Calgon". Sembra insomma che gli stessi vertici aziendali e i pubblicitari affrontino a viso aperto, a distanza di tempo dal renaming del 2008, il problema del nome difficilmente accettato, lavorando su quegli stessi strumenti che avevano contribuito a rendere celeberrima la denominazione Calfort. Questa situazione può darsi con più facilità nel caso di prodotti unici, che hanno pressoché creato una nuova categoria di prodotto e che per decenni la hanno presidiata quasi in solitudine. A quanto pare, il mantenimento della sillaba iniziale "Cal-" nel renaming non ha giovato a rendere liscio e indolore il passaggio. Ora insomma interviene la musica del jingle, come a sciogliere gli ultimissimi dubbi che qualcuno potrebbe ancora mantenere sulla parentela strettissima tra Calfort e Calgon. 

(Ricordo anche, su questo brand, un vecchio post qui.)

martedì 18 agosto 2015

Alphabet ovvero la nuova holding di Google (se BMW permette)

Lo si è letto nei giornali attorno a Ferragosto: Big G lancia la denominazione Alphabet, la nuova holding che conterrà i vari brand del colosso, pronta a sostituire Google Inc. nel listino di Wall Street. L'operazione è da inquadrare anche nella volontà di lasciare il brand originario "Google" vivere nel proprio mondo e avere quindi un nuovo naming "separato" per la società quotata e contenente il ventaglio di brand dell'azienda californiana (YouTube, Android ecc.). Il lancio della denominazione è accompagnato da una serie di comunicazioni sui nuovi assetti societari e sulle nuove cariche. Tutto bene e logico finché non irrompe BMW nella scena, proprietaria del brand Alphabet nonché del dominio alphabet.com (società che si occupa di soluzioni di mobilità, leasing e car sharing), la quale sostiene chiaramente che la nuova denominazione non s'ha da fare. L'esempio è interessante da più punti di vista: 1) la volontà di Google di introdurre una denominazione "separata" e meno in vista per il grande pubblico che quotidianamente usa Google; 2) il brand "Alphabet" in sé, che richiama le lettere, la digitazione, le possibilità combinatorie; 3) il fatto che Google non si sia posta il problema della denominazione già in portafoglio di BMW prima del lancio e questo - diciamocela tutta - pare davvero strano. Ci si chiede insomma se questa sia la più normale delle sviste del naming (che come vedete può capitare anche ai cosiddetti numeri uno) o se sia una scelta di proposito, quasi una provocazione. Vedremo e sicuramente leggeremo ancora.

sabato 8 agosto 2015

Origine del nome Migros

"The name comes from the French "mi" for half or mid-way and "gros", which means wholesale. Thus the word connotes prices that are halfway between retail and wholesale. The logo of the company is a large orange M, which some Swiss newspapers call "the orange giant" (German: oranger Riese, French: géant orange, Italian: gigante arancio).". Questo si legge nella pagina Wikipedia dedicata a un attore tra i principali della scena svizzera della distribuzione. Interessante il riferimento alla perifrasi con cui il linguaggio dei giornali "cambia nome" spesso alle denominazioni aziendali, anche perché è una situazione assai diffusa, non solo nel giornalismo di stampo economico e finanziario. Nell'insieme il nome Migros si configura come una soluzione interessante, pur rimanendo in una scia e tradizione consolidata che vede assai frequentemente i nomi della grande distribuzione giocare attorno alla variabile del prezzo.

sabato 1 agosto 2015

Lo sgrassatore KH-7, un nome B2B che approda alla grande distribuzione?

Da deformato quale sono, quando sono incappato nello spot televisivo dello sgrassatore KH-7, non mi sono tanto soffermato sulla "narrazione" ricercata dai creativi (ho saputo poi che la regia dello spot è di Bigas Luna), ovvero sull'ennesima storia di seduzione, sex appeal e sesso interrotto da un problema "tecnico" e dalla sua felice, tempestiva risoluzione rappresentata dal prodotto reclamizzato. La cosa che mi ha colpito è stata, manco a dirlo, la denominazione. KH-7, scritto così, col trattino, non mi suonava familiare nel mondo dei nomi dei prodotti per la detersione. E evidentemente una ragione c'è: KH-7, prodotto dell'azienda spagnola KH Lloreda, dalla piccola ricostruzione che mi son fatto pare essere uno sgrassatore che nella vita precedente stava nel mondo della pulizia industriale, era conosciuto in ambito B2B e probabilmente, date le sue caratteristiche e data la passione sgrassatrice degli italiani, è stato lanciato nel mercato della grande distribuzione organizzata. Il nome è rimasto tale e suppongo che i pubblicitari abbiano avuto pensieri simili davanti a questa denominazione apparentemente asettica. Non che i nomi di detersivi o sgrassatori siano un concentrato di fantasia, ma non assomigliano nemmeno a delle sigle alfanumeriche, com'è il nostro KH-7. Di qui probabilmente l'idea dello spot girato da Bigas Luna, che un po' fa quello che fanno tanti registi chiamati in pubblicità, e cioè promuove sé e la propria filmografia usando certe soluzioni, ribadento la tendenza a far fare all'uomo determinate azioni. Ad ogni buon conto, il fatto interessante è che portando un naming tipicamente B2B nel settore consumer questo sgrassatore sembra già in grado di comunicare una certa rottura e di farsi notare (anche il codice colore, arancione e blu, lo avvicina a certe soluzioni tipicamente strong del nostro immaginario delle pulizie, come potrebbe essere "Idraulico liquido", ops... Mr. Muscolo).


sabato 25 luglio 2015

Un naming efficace per la piattaforma di ride sharing BlaBlaCar

Trovi un passaggio per una determinata tratta stradale in un dato giorno, contatti il conducente (del quale puoi sapere se fuma, vedere una foto, controllare i pareri di altri utenti che hanno viaggiato con quel conducente, sapere che macchina ha, verificare il prezzo della tratta) e viaggiate insieme. Ma vi parlate poi? A stare al naming, l'idea è anche quella della chiacchiera, visto che si è ricorsi al ritmato e universale "bla bla" unito ad un altro quasi universale monosillabico come "car" per dare il nome a questa piattaforma di ride sharing che inizia a riscuotere un certo successo. Il senso è quello di un naming che sia socializzante: condividi un percorso, risparmi, si inquina meno e magari si conoscono nuove persone, si socializza. Chissà se tra i vari feedback si potrà lasciarne uno sul livello di piacevolezza della conversazione oppure chissà se nel futuro sviluppo ci sarà anche l'opzione "richiedi compagno di viaggio taciturno". Il tutto è qui.

venerdì 17 luglio 2015

Il naming dei parchi divertimenti soffre della mancanza di fantasia

In principio fu Gardaland. Certo, ancor prima c'era stato Disneyland, mica è una cosa che potevamo inventare noi italiani anche se poi c'è stato tutto un settore industriale italiano che ha fornito giostre e attrazioni per i parchi. I parchi divertimenti che poi si sono succeduti in Italia non hanno dimostrato una grande fantasia o una buona dose di coraggio nel naming. Possiamo registrare una certa tendenza all'utilizzo di "land" all'interno di questi nomi: Leolandia, Mirabilandia, Acqualandia, Etnaland solo per citare alcuni fra i più noti. Anche nei nomi dei parchi acquatici la presenza di desinenze come "onda", "splash", "acqua" la fa da padrona. In questo settore è come se il primo arrivato, o comunque il caso di maggior successo straniero e poi italiano, avesse creato l'immaginario di riferimento e tutti quelli venuti dopo si fossero semplicemente adeguati. In questi casi ci si chiede sempre se si tratti di una questione di strategia (una strategia che sfocia quasi nella scaramanzia, però) oppure di una mancanza di fantasia e forse di coraggio nell'impresa di denominazione di un nuovo parco divertimenti. Considerando che la localizzazione di questi parchi è fattore determinante del loro successo e che quasi mai questi sono in concorrenza diretta tra loro proprio in virtù delle loro posizioni distanziate, giocare la cosiddetta strategia me too anche nel naming non ha però molto senso. Tuttavia, sembra ormai che adoperare un "land" o "landia" nel nome del nuovo parco assomigli da vicino alla volontà di appropriarsi dell'etichetta di parco divertimenti di quella determinata area.

sabato 11 luglio 2015

Online un'antologia di articoli sul naming dal 1999 a oggi

Il naming è spesso un argomento dove il neofita che conduce l'intervista chiede di partire da zero, anche se poi tutti dicono la loro su un nome. Tutti comunque (anche quelli che si dicono esperti della materia) dovrebbero operare con buona dose di umiltà e in fondo "sapere di non sapere". Per questo e altri motivi è sempre bene unire la prudenza alla solida preparazione, l'estro con il metodo più rigoroso ed è sempre positivo mantenere a fuoco la letteratura e alcuni articoli interessanti che sono usciti via via negli anni. Torno pertanto a pubblicare, all'interno di questa rubrica dedicata alle risorse online sul naming, un nucleo di articoli meritoriamente messo assieme dall'agenzia americana Igor International a questo indirizzo. L'arco temporale ricoperto da questi articoli è notevole e ce n'è a sufficienza per parlare di una vera e propria antologia.

sabato 4 luglio 2015

Il product naming su Wikipedia

Forse molti di voi già l'avranno visitata, io però da tempo non la frequentavo. Mi pare comunque che la pagina dedicata al product naming su Wikipedia sia molto ben curata e dettagliata. Si parte dai principi del naming, dalle tipologie di nomi più diffuse, per poi andare a sfrondare le tecniche di creazione di nomi e le principali realtà che si occupano di naming. Certo, l'accento è prettamente americano (nemmeno un'agenzia di naming europea fra quelle menzionate). Ad ogni modo questa pagina è un buon punto di partenza per tutti quelli che desiderano farsi un'idea e pure i link riportati in chiusura rappresentano approdi di approfondimento molto interessanti. Prendete ad esempio questo dedicato al renaming.

sabato 27 giugno 2015

Ancora su naming e pronuncia: il caso di Huawei

Lo noto anche dalle statistiche di accesso a questo blog: spesso è la pronuncia che muove verso un nome e incuriosisce. Se un nome non è "spiegato" nella sua pronuncia da uno spot diffuso massicciamente, se non si è così bravi a imporre a livello mondiale la pronuncia alla tedesca come AEG, se come spesso accade un nome nasce nel digitale e lì galleggia senza che sia data una pronucia "esatta" all'utente, è normale che sorga qualche dubbio sulla pronuncia. Come si pronuncia Saucony, ad esempio? Come si pronucia Vimeo? E come si pronuncia quel nuovo marchio affacciatosi nel mercato degli smartphone? Quale? Huawei. Alla fine del post rimando a un video dedicato proprio a questi dubbi. Resta una domanda di fondo alla quale non so dare risposta univoca: è sempre meglio un nome che nasce con una pronuncia indubitabile, built-in, come poteva essere ad esempio Bic, oppure questi nomi che nascono con pronunce misteriose alla fine "fanno gioco" e creano una sorta di alone di interesse attorno al brand?

sabato 20 giugno 2015

Origine del nome Volotea

Mi hanno sempre incuriosito le livree delle compagnie aeree e anche osservare come mutano nel tempo. Mi incuriosiscono meno i loro nomi. Nominare una compagnia aerea non è facile, così come non è facile nominare moltissime altre aziende o prodotti. Girano tuttora moltissimi nomi assai descrittivi e poco fantasiosi (nominare ficcandoci dentro un "air", "fly" o "airways" è all'ordine del giorno). Esistono poi i casi di renaming, come quello di cui abbiamo sentito di recente riguardante Germanwings, la quale prenderà il nome Eurowings. Volotea mi è famigliare, un po' perché ha il suo hub a Venezia, al Marco Polo, e quindi insiste molto anche con la pubblicità e le affissioni in zona e un po' perché quei quadratini rossi mi ricordano le tovaglie che si usano in cucina (strano ritrovarli in un'identità visiva di una compagnia area). Ma veniamo al naming di Volotea, perché è di questo che mi interessava capire le motivazioni. Nel panorama generale è interessante, abbastanza distintivo, anche perché al posto di "air" o "airways" ricorre al "volo-". Sembra arrivare da "revolotear" che Real Academia Española definisce "1. tr. Arrojar algo a lo alto con ímpetu, de suerte que parece que da vueltas. 2. intr. Volar haciendo tornos o giros en poco espacio. 3. intr. Dicho de una cosa: Venir por el aire dando vueltas": eccolo spiegato un classico esempio di naming per sottrazione di lettere da una parola-verbo che rinvia all'immaginario di riferimento del volo e dell'aviazione.

sabato 13 giugno 2015

Origine del nome Trivago (e qualche considerazione)

Tre sillabe, fantasia, nessun significato già dato (eppure sa un po' di "travel", di "viaggio", di "andare", di "go" appunto, e rimescola tutto) per un nome che sentiamo spesso, anche in televisione, dato che si tratta di uno dei principali motori di ricerca per hotel di tutto il mondo. Ma come nasce questo nome che esalta la propria scansione trisillabica persino negli spot? Il brano seguente in inglese è tratto dall'intervista che si legge in versione completa qui:

Fik: Where does the name ‘trivago’ come from?
Rolf Schrömgens: The name of our brand was intended to have a connotation of travel, but should not be totally focused on it, because we weren’t sure if our business would just be for travel or if it would expand to other areas. We came up with the name putting different syllables related to travel on a board and trying out what worked, and seeing if we could still actually find a domain for it. At the time we didn’t have that much money, so we could only afford domains that were free. I was a fan of ‘travigo’, but that domain was already taken, so it would cost like 100€, and we didn’t want to spend the money at the time. Today, I think travigo is actually a domain of trivago, we now own it too. But at the time we said “Ok, let’s call it trivago”.


Aggiungo infine che per i nomi che nascono "per il web" sembra profilarsi un nuovo importante requisito: la facilità di memorizzazione e digitazione. Abbiamo già trattato il caso Kijiji qui.

sabato 6 giugno 2015

Sky vince su Skype: quando due o più nomi si assomigliano? Appunti sul "rischio di confusione"

Il mondo è pieno di nomi che si assomigliano dal punto di vista morfologico e fonetico. A volte queste somiglianze sopravvivono, altre volte si va in rotta di collisione e subentrano problematiche, veri e propri grattacapi di natura legale con possibili ricadute economiche e di reputazione. Ad esempio è di pochi giorni fa la notizia che la Corte di Giustizia Europea non consente la registrazione in Europa dell'arcinoto marchio di servizio voip Skype, troppo vicino per suono e significato a Sky, l'altrettanto (altrettanto?) nota emittente satellitare. La vertenza affondava le radici nel passato e solo ora la situazione sta evolvendo. I contenuti della sentenza, da quel che si è letto, sono interessanti perché si soffermano anche sulla durata della pronuncia della "y", nonché sull'aspetto del logo di Skype, il quale va a rafforzare il senso generale di qualcosa che rimanda alle nuvole e al cielo (si vedano anche gli stessi colori bianco e azzurro). Il comunicato della sentenza riapre la porta di certi pensieri: fino a quando si potrebbe parlare di "accanimento" in questo genere di sentenze e procedure? Il più volte tirato in ballo "rischio di confusione" in ambito naming come può essere definito in modo sicuro? I dizionari definiscono rischio come "eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili". Se questa definizione è centrata, dove sta il discrimine tra quel "più o meno prevedibili"? Fino a dove nelle questioni del naming si può lasciar decidere alla pragmatica (intesa dal punto di vista della linguistica), a eventuali indici di notorietà (concetto aleatorio e provvisorio), persino al buon senso? Quando e dove lo scettro delle decisioni definitive e definitorie passa ai professionisti del diritto e alla loro ultima parola?

domenica 31 maggio 2015

Buitoni Papiro

Nel settore alimentare, in gergo merceologico food, la forma e quello che possiamo ormai considerare una sorta di food design sono sempre centrali. Pensiamo ai nomi di formati di pasta ma anche a quelli dei biscotti, dei quali ho già scritto a più riprese. Si tratta di una vera e propria tendenza che può essere sostenuta da un'ampia e variegata serie di esempi e non si smentisce nemmeno con il prodotto a lato di Buitoni, denominato Papiro a ricordare quella speciale carta forno in dotazione che serve a cuocerlo. Da un punto di vista di concetto è la carta a essere ricoperta di quelle erbe e spezie che andranno a insaporire il pollo in padella, durante la cottura. Per il naming insomma il dito è direttamente puntato proprio su questa speciale carta e sulla sua forma che ricorda quella di un papiro. Ne deriva un nome trisillabico innovativo capace anche di sostenere l'innovazione di un prodotto che non ho ancora assaggiato.

sabato 23 maggio 2015

Nuova Renault Kwid

I naming di auto sono sempre quelli che fanno più notizia. Sarà perché sono quelli per i quali si stanziano i budget più sostanziosi, sarà per la centralità dell'auto nelle nostre vite, sarà perché l'auto assomma tante parti, sarà perché certi naming di auto hanno fatto cilecca (e son dolori!), quel che però è certo è che un'auto nuova fa spesso notizia assieme al proprio nome. Curioso e interessante il nuovo nome per il SUV compatto di Renault, destinato per ora solo al mercato indiano. La creazione è di Nomen che ne parla nel proprio blog (per gli interessati anche ad altri aspetti di questo lancio si può cliccare su questo articolo). Si è ritenuto di optare per un nome "solido e dinamico". Sempre nel blog citato si legge inoltre che "Son sémantisme, quant à lui, renvoie aux notions qui ont présidé à l’élaboration du projet : l’innovation à travers le substantif «idée», l’évasion et la découverte transmises par l’adjectif anglais wide mais aussi la surprise et l’étonnement liés au terme latin quid." Aggiungiamo che anche a un livello visivo c'è una forza vicinanza con "kid" e una certa familiarità fonica con un altro storico brand della casa francese: Twingo e Kwid condividono infatti le lettere -wi- in seconda e terza posizione.

sabato 16 maggio 2015

Il rapporto tra naming e packaging in un paio di esempi

L'altra sera sono passati in rapida successione due spot, quello delle nuove Tic Tac e quello di un prodotto che si chiamava Anitra WC e ora si chiama internazionalmente Duck (per l'azienda che ha il brand in portafoglio, SC Johnson, diventa un nome unico da gestire). In questo secondo esempio ci sarebbe da riflettere su questa doppia traduzione, dall'inglese all'italiano e poi ritorno, con il classico nome monosillabico, situazione che è stata così frequente del mondo dei detergenti (Lip, Bolt, Dash, Prill, Smac, Vim). Ma non è tanto di questo che voglio scrivere e non è tanto questo che ho pensato osservando i due spot in rapida sequenza. Mi veniva in mente che c'è stata - e forse sarebbe da indagare se ha perso smalto -  tutta una lunga sequenza di naming che erano strettamente collegati al packaging. Nel caso di Tic Tac è evidente il rimando all'apertura della confezione (originariamente si chiamavano descrittivamente "Refreshing Mints"), mentre in quello del prodotto per WC è chiaro il rinvio alla forma della confezione che agevola il versamento del prodotto nelle parti più inaccessibili del sanitario. Ho scelto la foto sopra però non a caso: nei casi di brand extension la gamma si può arricchire con prodotti che nulla hanno a che fare con le motivazioni originarie del naming (è il caso dei dischi rinfrescanti illustrati in foto). Questo non costituisce un problema se il brand è molto noto e affermato. Forse potrebbe costituirlo in altri casi. Ho comunque la sensazione che si sia indebolita la tendenza di sottolineare nel naming benefici funzionali del prodotto attribuibili al packaging. Non sembra anche a voi?

sabato 9 maggio 2015

Il nuovo browser Microsoft Edge

Accanto vedete l'icona-logo del nuovo browser sviluppato da Microsoft e denominato "Edge". L'azienda capitalizza così la memoria e l'immaginario costruito in molti anni di presenza di un'azzurra "e" minuscola su tantissimi desktop del mondo e decide di non optare per un nome di rottura, mantenendo un logo molto simile e simile colore. Il caso è molto interessante e istruttivo. Lasciamo perdere che per la rete già girano pareri non lusinghieri (Microsoft non è cool, si sa, e in fondo non lo è mai stata), ma soffermiamoci piuttosto su quello che sembra stare dietro una scelta del genere: 1) preferenza per il mantenimento dell'iniziale "e" di Explorer; 2) preferenza per la "e" minuscola nell'icona, anche se poi in contesti scritti ufficiali si legge sempre "Microsoft Edge", con la maiuscola; 3) si è preferito un nome corto, più corto ancora di Chrome. Mi sembra curiosa questa mossa proprio alla luce del calo di utilizzo di Explorer e nonostante la reputazione non eccelsa che questo browser si era costruito negli ultimissimi anni. L'azienda ha insomma ritenuto opportuno ripartire dal passato e dal consolidato senza cercare l'avventura.

Non mi sento di accodarmi allo stuolo di pareri negativi sul nome, in fondo se ben guardiamo la parola "edge" è piena di semi (memi?) positivi se pensiamo a quello che un browser deve fare, non ultimo quand'è combinata alla parola "cutting" per dar vita all'espressione, pur abusata, "cutting edge" (all'avanguardia). E non dimentichiamo un fatto assai semplice: se un'azienda non è ritenuta cool, mai potrà essere ritenuto cool un nome da questa sfornato. A mio avviso i naming di Apple degli ultimi anni (la serie iQualcosa, per capirsi, con iPhone in testa) sono quanto di più noioso potessero trovare, eppure...

domenica 3 maggio 2015

"Masha e Orso" o "Masha e l'orso". Qualche indecisione

Non è un mistero che un cartone animato sia un vero e proprio brand. Pensiamo solo all'impero di Peppa Pig. Anche questo accanto non scherza negli ultimi tempi. Notavo però una certa indecisione tra come differiscono il nome scritto e il nome pronunciato nel caso di questo specifico e fortunato cartone animato. Il fatto è questo: spesso si legge sulla grafica "Masha e Orso" mentre l'annunciatrice dice "Masha e l'orso". Fa differenza, poiché nel primo caso si registra la volontà di rendere nome proprio il nome comune "orso" (e questo rispecchia anche i dialoghi tra i protagonisti). Nel secondo caso, invece, "orso" torna ad essere nome comune. Mi ha sempre incuriosito questa indecisione e mi sono chiesto da dove nasca e soprattutto se esista una qualche volontà precisa tra gli autori del cartone o fra i suoi importatori in Italia.

domenica 26 aprile 2015

Origine del nome di marca Lambretta

Lambretta M (A) 125
Sono interessanti le vicende di un brand name arcinoto come Lambretta, entrato nell'immaginario e da tempo lessicalizzato, tanto da essere presente nei dizionari. Lambretta è uno scooter prodotto dalla Innocenti dal dopoguerra fino al 1972. La catena di montaggio e il nome presero poi la via dell'India (fu azienda statale indiana fino alla fine dei Novanta) e se uno cerca in rete può notare come vitalità e notorietà del brand name vada di pari passo con uno stillicidio di vicende legali sull'utilizzo del marchio. Lambretta prende il nome dalla geografia. I quartieri produttivi stavano a Lambrate, nella zona del fiume Lambro. Basta dare un'occhiata a questo sito internazionale dedicato al brand per rendersi conto di come oggi la questione sia proprio sulla vitalità, tenuta e gestione di questo brand in tantissimi paesi. La storia dell'azienda poi prevede altre questioni di naming assai interessanti, come il Lui o Lambretta Lui, ovvero uno scooter costruito dalla italiana Innocenti negli anni 1968 e 1969 e che all'estero venne proposto con il nome di "Luna" (la versione "50 CL"), "Vega" (il "75 S") e "Cometa" (il "75 SL"). Ma queste sono altre storie.

sabato 18 aprile 2015

Colonia agricola (sic)

Premessa che riguarda il mercato: il biologico non conosce crisi e l'espressione "chilometri zero" sembra diventata espressione magica passepartout per poter vendere determinati prodotti. Non mi va di addentrarmi in tirate pro o contro il biologico, anche perché c'è il rischio poi di dover moderare dei commenti che poco o niente avrebbero a che fare col naming. Qui si parla di naming e pubblicità, con qualche tangente. Posso raccontare qualcosa, però. Posso raccontare ad esempio che da poco, dalle mie parti, hanno inaugurato un posto dall'incuriosente naming di "Colonia Agricola" (sottotitolo efficace "bottega del biologico, ristorantino e caffetteria", come a dire che ci puoi far la spesa, un pasto o anche solo una pausa veloce). Mi pare che il nome "Colonia Agricola", in questo caso, aspiri a farsi vero e proprio brand name, lasciando al passato il portato storico e giuridico (non dimentichiamo che stiamo parlando tecnicamente di una misura di sicurezza personale detentiva) e quindi certe connotazioni delle istituzioni che così comunemente si chiamavano, recuperando però quel senso di "antico" e "naturale" che in queste situazioni è spesso inseguito e fa gioco al messaggio ricercato. La cartolina che ne annunciava l'inaugurazione, giunta nella mia buca delle lettere, prevedeva infatti una foto che mi ha ricordato un'iconografia d'antan, in bianco e nero e opportunamente antichizzata, con sopra un logo, molto "fresco" come si dice in gergo grafico, dove si intuiva la zampa di una buona agenzia pubblicitaria (ho trovato la conferma di questa impressione girando la cartolina, nella firma dell'artwork da parte di un'agenzia nota e ben posizionata sul mercato). Insomma, il mix tra foto d'epoca, naming e logo "fresco" credo sia stato il leitmotiv di quest'idea pubblicitaria. Mi sono chiesto se, per scegliere tale denominazione singolare, qualcuno avesse riflettuto sopra questa pagina di Wikipedia e sull'originale senso giuridico di "colonia agricola". 

L'intento, per quanto concerne il caso di cui vi scrivo, sembra insomma quello di voler risemantizzare e aggiornare il concetto e la memoria di "colonia agricola" traendo spunto dal suo portato storico-giuridico: se uno va nel sito di questa bottega del biologico apprendiamo infatti che gli obbiettivi sociali di "riscatto", per le persone svantaggiate qui impiegate nel lavoro, sono notevoli e qui immagino risieda parte dell'analogia con "colonia agricola" come istituzione. Il mercato del biologico non è nuovo a queste operazioni di risemantizzazione delle parole e basti pensare a come si è impossessato dello stesso aggettivo "biologico", che originariamente vorrebbe dire soltanto "relativo alla biologia" (ora, tanto per curiosità, provate a digitare "biologico" sulla barra di Google e vedete cosa salta fuori). E il payoff del nostro caso,"agricoltura biologica sociale", prevede l'aggiunta dell'aggettivo "sociale", quasi a sostenere implicitamente che ormai dire "agricolutura biologica" soltanto non basta più (un equivoco di fondo della nostra epoca credo sia proprio nell'impiego e abuso dell'aggettivo "sociale"). Personalmente non so se mi sarei sentito a mio agio a licenziare un'operazione di marketing del genere e mi riferisco sia al naming sia alla progettazione della cartolina dell'inaugurazione e parlo da un punto di vista deontologico. Ad ogni modo sono di sicuro in clamorosa minoranza. So invece che per curiosità ho mostrato la cartolina a molti colleghi e anziché osservare reazioni interrogative, sul nome scelto e soprattutto sulla scelta della foto, ho solo notato in loro un profondo interesse per l'inaugurazione, che fra l'altro so essere andata benissimo. Come vedete, le vie della pubblicità sono infinite.

P.S.: Naturalmente questo post non ha nulla a che vedere con il problema della riabilitazione e del recupero di alcune situazioni di cosiddetto "disagio sociale", che si pone su ben altri livelli. A quanto scritto, aggiungo soltanto che se fossi un giorno impiegato in ottica riabilitativa nel lavoro e nella raccolta agricola in una simile struttura e qualora mi rimanesse un po' di spazio per riflettere, non gradirei una simile presentazione del mio lavoro al mercato.

sabato 11 aprile 2015

Segugio.it, i dizionari offrono tuttora naming interessanti

Uno dei ritornelli più ricorrenti fra chi è alle prese con un naming è quello che recita che i dizionari delle principali lingue del mondo sono già tutti registrati (e anche per questo motivo si sono diffusi i nomi "coniati" e di "puro suono" come Yaris, ad esempio). C'è sicuramente un fondo di verità in questa affermazione. Non è facile infatti districarsi fra parole che sono state nella maggior parte dei casi registrate e anche contese. Ci sono però esempi (spesso legati al mondo del web, in questi anni) di come i dizionari presentino tuttora parole semanticamente interessanti e malleabili in ottica di una rapida creazione di identità e strategia. Prendete ad esempio segugio.it, il sito che vi mette in condizione di risparmiare confrontando assicurazioni auto e moto, mutui, prestiti, conti correnti e di deposito, tariffe di gas luce e adsl: è un nome breve, simpatico, facile da ricordare e identificare e il significato letterale della parola "segugio", ovvero di "cane da caccia dotato di un fiuto molto fine", posiziona egregiamente questo servizio erogato online. Non da ultimo è un nome che ben si presterà a eventuali extension (o stretching) di tale servizio.

sabato 4 aprile 2015

Naming, spelling, pronuncia dei nomi di marca o azienda. Alcune considerazioni

Sempre più spesso per radio, alla fine degli spot, si possono ascoltare alcune rapide raccomandazioni sul modo esatto di scrivere un nome o un indirizzo Internet. Questo perché, come ben sappiamo, non sempre pronuncia e scrittura vanno di pari passo. Pensate anche a un nome facile e apparentemente indubitabile come "Bic". Uno potrebbe anche pensare, se lo sente soltanto pronunciare, che si scriva "Bik". Per questo e altri motivi per radio si danno indicazioni sullo spelling esatto di un nome. La questione del rapporto fra nome e pronuncia, a mio avviso, sta vivendo una nuova stagione. Intendo dire che mi pare siano finiti i tempi in cui "Colgate" si pronuncia come si legge, così come "Carefree". Complice un livello linguistico medio forse cresciuto e complice pure la rete, le persone si interrogano più frequentemente su quale sia la corretta pronuncia di un nome (pensate anche a "Moleskine"). E quanti sanno che "Miele", vero cult brand in tante case, si dovrebbe pronunciare "mile" visto che uno dei suoi fondatori si chiamava Carl Miele? Bella trovata, almeno per gli italiani, aver inventato poi il "cestello a nido d'ape" sulla scia di un nome mellifluo! (Per stare a un concorrente, in passato avevo trattato l'interessante caso di AEG che era riuscita a imporre a tutti i livelli l'originale pronuncia tedesca e chissà chi, fra gli italiani o francesi o spagnoli, si domandava perché la G diventava "ghe" e non "gi").

Queste rapide osservazioni convergono verso un punto: le marche globali in futuro, anche quelle che nasceranno, continueranno probabilmente ad avere delle pronunce "locali", tuttavia è bene sapere che i dubbi sulla pronuncia di un nome potranno essere sempre più frequenti (certe aziende addirittura inseriscono tra le FAQ del sito alcuni appunti sulla pronuncia del nome). Se le aziende non vogliono perseguire un cura maniacale nella divulgazione della giusta pronuncia, come nel caso di AEG, sarà opportuno che siano preparate a questo cambiamento e a gestire anche questa variabile per essere pronte a rispondere ai propri interlocutori curiosi. La pubblicità "di massa", come la conoscevamo, funziona sempre meno e non è più in grado di passarci un "Carefree" così come lo leggiamo senza provocarci un sorriso. Spesso il suo posto è stato preso da tastiere, sempre più silenti, che quando utilizzate producono un analogo ticchettio o lucore in tutto il mondo. Questi dubbi di pronuncia riguardano persino uno dei brand oggi più noti su scala mondiale, Google, che non sembra non voler dare linee guida precise su come dev'essere pronunciato, lasciando che quelle sei lettere prendano strade diverse a seconda delle bocche dalle quali escono.


Una domanda interessante che potremmo porci è la seguente: sarà più importante perseguire una facile pronuncia o un facile spelling-digitazione per un nuovo nome di marca o azienda? Mi viene da propendere per la seconda opzione, ma forse non c'è una risposta univoca. Il naming presenta delle pratiche consolidate, che si sono dimostrate efficaci nel tempo, ma anche tanti tanti esempi che smentiscono la regola.

domenica 29 marzo 2015

MUDEC è l'ennesimo acronimo utilizzato per il naming museale

C'è giustamente gran fermento per l'apertura del MUDEC, Museo delle culture a Milano, nell'area ex Ansaldo. Trovo quasi ossimorico l'accostamento della parola "museo" con "culture" ma tant'è. Non sono qui per scrivere un post di epistemologia della museografia/museologia bensì per parlare di naming e di quel caso tutto particolare del naming museale. Mi domando sempre più spesso: chi decide i nomi dei nuovi musei che si aprono? Non c'è neanche un pizzico di coraggio di valutare strade alternative agli acronimi? Davvero si pensa che l'acronimo - che parla italiano nel caso di un'istituzione che vorrebbe invece rivolgersi al mondo intero - sia l'unica strada praticabile? Cos'hanno di bello gli acronimi? Sono pratici? Hanno un bel suono? Funzionano? Sono evocativi? E poi, non ci rendiamo conto di una cosa banale cioè che tutti gli acronimi museali del mondo rischiano di iniziare con la stessa lettera, la "M". Questo fatto non potrà mai trasformarsi in un tratto distintivo. Davvero trovo vano sprecare, in un certo qual modo, perlomeno per quanto concerne il naming, gli investimenti, gli sforzi e l'impatto che vuole creare un nuovo museo. Pensateci. Il nome di un nuovo museo non può sempre pedantemente diventare un acronimo "per comodità". Comodità di chi, poi? Forse non guasterebbe qualche archi-star in meno e star due minuti in più a pensare un naming che racconti meglio le aspirazioni di un nuovo museo. Ad ogni modo, in bocca al lupo al MUDEC.

domenica 22 marzo 2015

Cose da evitare in caso di naming di azienda o prodotto

Rimango anche oggi in orbita di esemplificazioni. Alla fine servono sempre. Sempre tra le domande più ricorrenti, oltre a quella di elencare sonori e simpatici errori di naming, c'è quella che chiede: che cosa evitare in caso di naming? Oggi mi soffermo su un paio di aspetti, ovvero che 1) è bene evitare un nome che sia troppo aderente alla categoria merceologica di riferimento/partenza oppure 2) troppo aderente a una tecnologia produttiva. Nel primo caso porto un esempio (di successo), mentre nel secondo caso mi inventerò una situazione. Dico un nome, Amazon, e tutti subito capiscono la lungimiranza di non prevedere la parola "book" (o qualche suo rimando) all'interno del nome. Eppure per un bel pezzo Amazon ha venduto soltanto libri, ma un naming del genere già aspirava ad essere altro. Si potrebbe parlare anche di naming "aspirazionale". Se Amazon non avesse optato per un naming del genere presto sarebbe stato necessario un renaming, per passare a vendere tutto quello che il sito propone. Per questo è bene non attaccarsi mai troppo a una categoria merceologica definita. Così come è bene non attaccarsi troppo a una tecnologia di produzione. Ipotizziamo il caso di un'azienda che produce pali in cemento perché ha dentro di sé una tecnologia che le consente di essere competitiva con questo tipo di prodotti. L'azienda magari cresce, acquisisce una fitta rete commerciale, poi però, per i motivi più disparati (i pali in cemento non li vuole più nessuno, si passa al ferro o si ritorna al legno, oppure semplicemente si usano tutti questi materiali) l'azienda si trova nella situazione di convertirsi a una nuova offerta, costretta ad ampliare la gamma, facendo tesoro della rete commerciale acquisita negli anni. Ecco, in tale caso, non sarebbe stata una scelta saggia un naming troppo legato all'orbita del cemento. Le tecnologie e i materiali passano col tempo, certi bisogni o certe relazioni commerciali invece possono durare più dei materiali e delle tecnologie. In termini di marketing tutto questo ricade nella casistica dei naming con posizionamento restrittivo, e l'esempio principe per anni è stato il detersivo Perlana che tuttavia, grazie alla comunicazione, è riuscito a correggere il tiro di un naming restrittivo (non solo lana ma lana e delicati in genere).

domenica 15 marzo 2015

Dick's ad esempio

In settimana stavo lavorando per questo cliente. Inizialmente non mi ero posto nemmeno il problema. Poi, visto che una volta alla settimana posto qualcosa qui, ho incominciato a pensare sopra il logo e il nome qui accanto. Ecco, a chi chiede esempi, a chi si scervella, a chi a volte è ossessionato dalle implicazioni negative che un nome può avere, sottoporrei l'interessante caso della catena di articoli sportivi americana Dick's. Ritorna in ballo la pragmatica di cui abbiamo già discusso, ritornano in ballo tutte le volte in cui si è detto che un nome è un asset e come tale si può gestire e naturalmente rientrano in ballo pure le numerose accezioni della parola "dick" (ah, dimenticavo, penso non sia necessario spiegare quali significati la parola "dick" può ricoprire in una semantica da dizionario). E poi non dimentichiamo mai il nome della più famosa balena della letteratura e tanti usi di questa parola. Insomma, il naming di Dick's non pare costituire affatto un problema, anche se è vero che tempo fa Dick era pure diminutivo di Richard, mentre oggi nessun genitore si sognerebbe di chiamare il proprio figlio Dick.