domenica 26 aprile 2015

Origine del nome di marca Lambretta

Lambretta M (A) 125
Sono interessanti le vicende di un brand name arcinoto come Lambretta, entrato nell'immaginario e da tempo lessicalizzato, tanto da essere presente nei dizionari. Lambretta è uno scooter prodotto dalla Innocenti dal dopoguerra fino al 1972. La catena di montaggio e il nome presero poi la via dell'India (fu azienda statale indiana fino alla fine dei Novanta) e se uno cerca in rete può notare come vitalità e notorietà del brand name vada di pari passo con uno stillicidio di vicende legali sull'utilizzo del marchio. Lambretta prende il nome dalla geografia. I quartieri produttivi stavano a Lambrate, nella zona del fiume Lambro. Basta dare un'occhiata a questo sito internazionale dedicato al brand per rendersi conto di come oggi la questione sia proprio sulla vitalità, tenuta e gestione di questo brand in tantissimi paesi. La storia dell'azienda poi prevede altre questioni di naming assai interessanti, come il Lui o Lambretta Lui, ovvero uno scooter costruito dalla italiana Innocenti negli anni 1968 e 1969 e che all'estero venne proposto con il nome di "Luna" (la versione "50 CL"), "Vega" (il "75 S") e "Cometa" (il "75 SL"). Ma queste sono altre storie.

sabato 18 aprile 2015

Colonia agricola (sic)

Premessa che riguarda il mercato: il biologico non conosce crisi e l'espressione "chilometri zero" sembra diventata espressione magica passepartout per poter vendere determinati prodotti. Non mi va di addentrarmi in tirate pro o contro il biologico, anche perché c'è il rischio poi di dover moderare dei commenti che poco o niente avrebbero a che fare col naming. Qui si parla di naming e pubblicità, con qualche tangente. Posso raccontare qualcosa, però. Posso raccontare ad esempio che da poco, dalle mie parti, hanno inaugurato un posto dall'incuriosente naming di "Colonia Agricola" (sottotitolo efficace "bottega del biologico, ristorantino e caffetteria", come a dire che ci puoi far la spesa, un pasto o anche solo una pausa veloce). Mi pare che il nome "Colonia Agricola", in questo caso, aspiri a farsi vero e proprio brand name, lasciando al passato il portato storico e giuridico (non dimentichiamo che stiamo parlando tecnicamente di una misura di sicurezza personale detentiva) e quindi certe connotazioni delle istituzioni che così comunemente si chiamavano, recuperando però quel senso di "antico" e "naturale" che in queste situazioni è spesso inseguito e fa gioco al messaggio ricercato. La cartolina che ne annunciava l'inaugurazione, giunta nella mia buca delle lettere, prevedeva infatti una foto che mi ha ricordato un'iconografia d'antan, in bianco e nero e opportunamente antichizzata, con sopra un logo, molto "fresco" come si dice in gergo grafico, dove si intuiva la zampa di una buona agenzia pubblicitaria (ho trovato la conferma di questa impressione girando la cartolina, nella firma dell'artwork da parte di un'agenzia nota e ben posizionata sul mercato). Insomma, il mix tra foto d'epoca, naming e logo "fresco" credo sia stato il leitmotiv di quest'idea pubblicitaria. Mi sono chiesto se, per scegliere tale denominazione singolare, qualcuno avesse riflettuto sopra questa pagina di Wikipedia e sull'originale senso giuridico di "colonia agricola". 

L'intento, per quanto concerne il caso di cui vi scrivo, sembra insomma quello di voler risemantizzare e aggiornare il concetto e la memoria di "colonia agricola" traendo spunto dal suo portato storico-giuridico: se uno va nel sito di questa bottega del biologico apprendiamo infatti che gli obbiettivi sociali di "riscatto", per le persone svantaggiate qui impiegate nel lavoro, sono notevoli e qui immagino risieda parte dell'analogia con "colonia agricola" come istituzione. Il mercato del biologico non è nuovo a queste operazioni di risemantizzazione delle parole e basti pensare a come si è impossessato dello stesso aggettivo "biologico", che originariamente vorrebbe dire soltanto "relativo alla biologia" (ora, tanto per curiosità, provate a digitare "biologico" sulla barra di Google e vedete cosa salta fuori). E il payoff del nostro caso,"agricoltura biologica sociale", prevede l'aggiunta dell'aggettivo "sociale", quasi a sostenere implicitamente che ormai dire "agricolutura biologica" soltanto non basta più (un equivoco di fondo della nostra epoca credo sia proprio nell'impiego e abuso dell'aggettivo "sociale"). Personalmente non so se mi sarei sentito a mio agio a licenziare un'operazione di marketing del genere e mi riferisco sia al naming sia alla progettazione della cartolina dell'inaugurazione e parlo da un punto di vista deontologico. Ad ogni modo sono di sicuro in clamorosa minoranza. So invece che per curiosità ho mostrato la cartolina a molti colleghi e anziché osservare reazioni interrogative, sul nome scelto e soprattutto sulla scelta della foto, ho solo notato in loro un profondo interesse per l'inaugurazione, che fra l'altro so essere andata benissimo. Come vedete, le vie della pubblicità sono infinite.

P.S.: Naturalmente questo post non ha nulla a che vedere con il problema della riabilitazione e del recupero di alcune situazioni di cosiddetto "disagio sociale", che si pone su ben altri livelli. A quanto scritto, aggiungo soltanto che se fossi un giorno impiegato in ottica riabilitativa nel lavoro e nella raccolta agricola in una simile struttura e qualora mi rimanesse un po' di spazio per riflettere, non gradirei una simile presentazione del mio lavoro al mercato.

sabato 11 aprile 2015

Segugio.it, i dizionari offrono tuttora naming interessanti

Uno dei ritornelli più ricorrenti fra chi è alle prese con un naming è quello che recita che i dizionari delle principali lingue del mondo sono già tutti registrati (e anche per questo motivo si sono diffusi i nomi "coniati" e di "puro suono" come Yaris, ad esempio). C'è sicuramente un fondo di verità in questa affermazione. Non è facile infatti districarsi fra parole che sono state nella maggior parte dei casi registrate e anche contese. Ci sono però esempi (spesso legati al mondo del web, in questi anni) di come i dizionari presentino tuttora parole semanticamente interessanti e malleabili in ottica di una rapida creazione di identità e strategia. Prendete ad esempio segugio.it, il sito che vi mette in condizione di risparmiare confrontando assicurazioni auto e moto, mutui, prestiti, conti correnti e di deposito, tariffe di gas luce e adsl: è un nome breve, simpatico, facile da ricordare e identificare e il significato letterale della parola "segugio", ovvero di "cane da caccia dotato di un fiuto molto fine", posiziona egregiamente questo servizio erogato online. Non da ultimo è un nome che ben si presterà a eventuali extension (o stretching) di tale servizio.

sabato 4 aprile 2015

Naming, spelling, pronuncia dei nomi di marca o azienda. Alcune considerazioni

Sempre più spesso per radio, alla fine degli spot, si possono ascoltare alcune rapide raccomandazioni sul modo esatto di scrivere un nome o un indirizzo Internet. Questo perché, come ben sappiamo, non sempre pronuncia e scrittura vanno di pari passo. Pensate anche a un nome facile e apparentemente indubitabile come "Bic". Uno potrebbe anche pensare, se lo sente soltanto pronunciare, che si scriva "Bik". Per questo e altri motivi per radio si danno indicazioni sullo spelling esatto di un nome. La questione del rapporto fra nome e pronuncia, a mio avviso, sta vivendo una nuova stagione. Intendo dire che mi pare siano finiti i tempi in cui "Colgate" si pronuncia come si legge, così come "Carefree". Complice un livello linguistico medio forse cresciuto e complice pure la rete, le persone si interrogano più frequentemente su quale sia la corretta pronuncia di un nome (pensate anche a "Moleskine"). E quanti sanno che "Miele", vero cult brand in tante case, si dovrebbe pronunciare "mile" visto che uno dei suoi fondatori si chiamava Carl Miele? Bella trovata, almeno per gli italiani, aver inventato poi il "cestello a nido d'ape" sulla scia di un nome mellifluo! (Per stare a un concorrente, in passato avevo trattato l'interessante caso di AEG che era riuscita a imporre a tutti i livelli l'originale pronuncia tedesca e chissà chi, fra gli italiani o francesi o spagnoli, si domandava perché la G diventava "ghe" e non "gi").

Queste rapide osservazioni convergono verso un punto: le marche globali in futuro, anche quelle che nasceranno, continueranno probabilmente ad avere delle pronunce "locali", tuttavia è bene sapere che i dubbi sulla pronuncia di un nome potranno essere sempre più frequenti (certe aziende addirittura inseriscono tra le FAQ del sito alcuni appunti sulla pronuncia del nome). Se le aziende non vogliono perseguire un cura maniacale nella divulgazione della giusta pronuncia, come nel caso di AEG, sarà opportuno che siano preparate a questo cambiamento e a gestire anche questa variabile per essere pronte a rispondere ai propri interlocutori curiosi. La pubblicità "di massa", come la conoscevamo, funziona sempre meno e non è più in grado di passarci un "Carefree" così come lo leggiamo senza provocarci un sorriso. Spesso il suo posto è stato preso da tastiere, sempre più silenti, che quando utilizzate producono un analogo ticchettio o lucore in tutto il mondo. Questi dubbi di pronuncia riguardano persino uno dei brand oggi più noti su scala mondiale, Google, che non sembra non voler dare linee guida precise su come dev'essere pronunciato, lasciando che quelle sei lettere prendano strade diverse a seconda delle bocche dalle quali escono.


Una domanda interessante che potremmo porci è la seguente: sarà più importante perseguire una facile pronuncia o un facile spelling-digitazione per un nuovo nome di marca o azienda? Mi viene da propendere per la seconda opzione, ma forse non c'è una risposta univoca. Il naming presenta delle pratiche consolidate, che si sono dimostrate efficaci nel tempo, ma anche tanti tanti esempi che smentiscono la regola.