sabato 22 dicembre 2012

Titolare un libro è un'operazione di naming?

Ne parla proprio oggi, tra l'altro, Mirella Appiotti in copertina di Tuttolibri de La Stampa. Mi riferisco alle operazioni di titolazione dei libri (soprattutto di narrativa). La titolazione di un libro, a maggior ragione oggi che è diventata opera di editor, può essere considerata un'operazione di naming? (Questa è una domanda che pongo io e non Mirella Appiotti.) Credo di sì. Innanzitutto va ricordato che quel complesso rettangolo o quadrato che si chiama "copertina del libro" contiene spesso più livelli di nomi e/o naming: dal nome dell'autore (pensiamo anche ai casi di naming di autori come "Wu Ming" o, in passato, "Liala") al nome dell'editore o il nome di collana (argomento già trattato, visto che la collana aspira ad essere una sorta di marchio-ombrello dove ospitare le varie perle). Ma la titolazione di un romanzo in sé è un'operazione di naming? Dicevo che a tutti gli effetti può considerarsi tale, dal momento che il titolo viene a rappresentare il nome del prodotto-libro, una sorta di promessa, un'evocazione, la possibilità di intesa istantanea con un ipotetico lettore (forse ha statisticamente più senso scrivere con un'ipotetica lettrice). Insomma, gli editor sono diventati gli operatori di naming del sistema editoriale. Il tema è tornato alla ribalta con il best-seller di Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi, che inizialmente pare non dovesse riportare questo titolo. Dato il successo del libro, in molti si sono interrogati se un ingrediente importante dell'impennata di vendite potesse essere ricercato anche in quel titolo inconsueto (a inaugurare una stagione di simili occhiute copertine invece ci hanno pensato, senza troppa esitazione, i grafici editoriali). Come il naming dei prodotti per il supermercato, anche la titolazione di un romanzo non è una scienza, ma aspira a diventare qualcosa di replicabile, analizzabile, quasi standardizzabile, a maggior ragione per il lancio di un esordiente. Detto in altre parole, un espediente per ridurre il rischio e, simultaneamente, una leva di marketing. Quando si pubblica un libro di Camilleri forse, da parte degli editor e dell'editore, c'è maggiore rilassatezza sul titolo: lì il nome che conta è un altro.

sabato 15 dicembre 2012

Il naming per un partito politico

La situazione politica italiana di questi giorni, a dir poco confusa e confusionaria, ci lascia supporre che qualche nuovo nome (intendo "nome di formazione", non certo di politici di peso!) s'affaccerà da qui alle prossime elezioni. E forse, lo possiamo già dire, non esiste terra più desolata di quella dei nomi dei partiti e della politica, un'aridità che poi inevitabilmente si riverbera in quel pastone illeggibile che è la cronaca politica dei quotidiani italiani. Individuiamo, alla rinfusa, alcune tendenze e linee di sviluppo della problematica del naming in politica (magari un giorno, chissà quanto lontano, una formazione un po' nuova si potrà riconoscere anche dal nome che adotterà).

1. Spesso ricorre la parola "Italia" all'interno della denominazione e questo è forse un pleonasmo, anche se può essere visto in contrapposizione ai movimenti localistici che utilizzano un punto cardinale nella loro denominazione. Resta di fatto che non è più un fattore distintivo.
2. Alcuni ricorrono ancora alla parola "partito", ad altri forse suona vecchia e di apparato.
3. Bisogna fare attenzione alle inevitabili abbreviazioni in sigle, visto che due tra i partiti maggiori differiscono, nella loro denominazione in sigla, per una lettera L soltanto (non è il massimo). 
4. Alcuni soffrono di una certa ambiguità. Ricorrono (alberoniamente?) alla parola "movimento" per marcare un distacco dai partiti tradizionali, ma prendono sempre più, almeno nel linguaggio giornalistico, anche il nome "diminutivo" estivo-canterino dal loro leader.
5. Una grande innovazione nel naming partitico degli ultimi decenni fu forse quella, banale e continentale, ma inedita e probabilmente efficace per orientare la grande fetta degli indecisi, di ricorrere al nome di un colore per nominare una formazione "trasversale" (anche se il colore è sempre stato un codice distintivo di tanti partiti e/o movimenti, poche volte il colore era diventato nome). Forse da allora il mondo è meno verde, ma questo è un altro discorso.
6. Che il successo di certi movimenti localistici si possa imputare, banalmente, anche al ripescaggio di parole come "liga" o "lega" che hanno una lunga tradizione in Italia?
7. Alcune parole come "libertà" tendono a svuotarsi, a causa dell'appropriazione congiunta su più fronti (pensiamo ad esempio a FLI, SEL e al PdL) o a trasformarsi in inquietanti plurali nel discorso politico; lo stesso può valere per un'altra parola come "alleanza".
8. Altra domanda che talvolta mi faccio: che il sogno proibito di tutti i partiti sia trovare/replicare un naming come "Democrazia Cristiana"? C'è chi prova con una U davanti, in sigla, ma non è la stessa cosa (e lo sanno loro stessi per primi).
9. Di fondo si registra una grande instabilità dei nomi e una massiccia stabilità delle facce. I nomi nuovi delle formazioni fanno notizia soltanto perché sono "nomi di nuove notizie". Un nome come "Ulivo" (senza esprimere alcun giudizio di valore) era per certi aspetti innovativo, soltanto un po'... statico, anche se è vero che i poveri ulivi vengono espiantati dalle loro bellissime terre per popolare anche i volgari giardini del nord.
10. In sostanza, finora quasi nessuno si è distinto per una denominazione originale, che sapesse differenziarsi, essere memorabile e comunicativa ad un tempo, essere pure rispettosa di un programma e degli elettori. I partiti saranno anche andati a lezione di marketing (e su certi aspetti lo notiamo) ma al contempo bisogna dire ai loro professori che è mancata una lezione sul naming.

Che lo specchio migliore della nostra situazione politica siano i nomi che saranno stampati sulla prossima scheda elettorale? Forse non lo specchio migliore, ma semplicemente uno specchio.

domenica 9 dicembre 2012

Naming con una sigla: alcune note sul caso di LG

LG è una marca che si è resa protagonista, alcuni anni fa, di una rapida ascesa mondiale. Vent'anni fa, per restare in Italia, pochi conoscevano questo brand coreano. Poi, tra monitor di pc, condizionatori, TV, lettori DVD o telefonini in molti hanno iniziato a familiarizzare con questo nome e con il suo logo. Un nome semplicissimo, due lettere, due consonanti che formano una sigla. Se da un lato converrete che si tratta di un nome facile da ricordare, dall'altro concorderete con simile convinzione che non è certo un nome in sé memorabile. Facilità di ricordo e memorabilità non vanno a braccetto nel caso dei nomi e nel caso delle sigle ("Quattro salti in padella" è forse il caso di nome memorabile ma non facilissimo da ricordare se non supportato da adeguata comunicazione pubblicitaria). Ancora una volta ci troviamo davanti ad una sigla e alla sua presunta neutralità. Quello che questo caso dimostra benissimo ancora una volta è che il brand name è un asset "flessibile" che si può (anzi, si deve) "gestire", plasmare, persino piegare e modellare. Il nome va gestito, non è dato banalmente una volta per tutte e va gestito alla pari di altri asset aziendali. Se quelle due consonanti da un lato davano vita a un nome forse sin troppo neutro, privo di valori-suoni potenzialmente negativi sin dal certificato di nascita (la qual cosa è importantissima per un brand globale come LG), dall'altro non davano certo vita a un nome particolarmente emozionante o evocativo. Che simili pensieri fossero all'ordine del giorno in azienda, quando il nome LG fu collocato in quel logo emoticon sorridente e legato a quel semplice ed efficace pay-off ottimista "Life's Good"? Nel pay-off che unisce "Life" e "Good" è evidente il gioco con le iniziali L e G. Il caso LG è particolarmente istruttivo nell'ambito del naming. Se da un lato ribadisce una certa neutralità e freddezza dei nomi-sigla, dall'altro dimostra come un nome-sigla possa essere "suonato" secondo un dato spartito e veicolato all'interno di valori di positività e ottimismo che sono alla base della comunicazione, in tutto l'universo di prodotti dove LG è presente. Ribadisce poi un concetto chiave, quale quello del dialogo e rimando costante tra nome, logo e pay-off. Quel che ne ricaviamo è la necessità di un approccio olistico alla marca e alla sua vitalità.

sabato 1 dicembre 2012

Naming in letteratura o nella scienza? Dai personaggi della fiction alle particelle di Joyce

Leggendo un libro vi sarà capitato di pensare che un nome di un personaggio era particolarmente azzeccato. Vi sarà pure capitato di pensare l'esatto contrario. Oppure vi sarete interrogati sul processo che porta un autore di un racconto o di un romanzo a dare un determinato nome al personaggio, oppure un diminutivo. Nella letteratura italiana registriamo persino un celeberrimo caso di re-naming, quello di Renzo de I promessi sposi, inizialmente chiamato Fermo da Manzoni. I nomi dei personaggi dei libri non sono prodotti in sé (anche se talvolta tendono a trasformarsi in simil-brand o a prestare la parola per operazioni di naming). Ai nostri fini è però comunque interessante contemplare cosa accade nelle fatiche di scrittura di un autore alle prese con i nomi dei propri personaggi, quale iceberg di un continente sommerso possa rappresentare la scelta di un determinato nome per un protagonista, per un personaggio secondario, per una comparsa. Alastair Fowler al tema dedica pure un libro di cui vedete la copertina. Il testo che accompagna Literary Names: Personal Names in English Literature recita:

Why do authors use pseudonyms and pen-names, or ingeniously hide names in their work with acrostics and anagrams? How has the range of permissible given names changed and how is this reflected in literature? Why do some characters remain mysteriously nameless? In this rich and learned book, Alastair Fowler explores the use of names in literature of all periods - primarily English but also Latin, Greek, French, and Italian - casting an unusual and rewarding light on the work of literature itself. He traces the history of names through Homer, Spenser, Shakespeare, Milton, Thackeray, Dickens, Joyce, and Nabokov, showing how names often turn out to be the thematic focus. Fowler shows that the associations of names, at first limited, become increasingly salient and sophisticated as literature itself develops.

Il tema è utile anche per ricordare un aspetto tutt'altro che secondario: quanti nomi di prodotti, brand e azienda hanno fornito i repertori della letteratura, dell'arte, della religione e soprattutto della mitologia?

E per nominare i progressi della scienza? Si tratta di un altro capitolo fondamentale del naming, anche se assai lontano dai prodotti che si vendono al supermercato, ma magari non lontanissimo dalle molecole che vengono nominate in farmacia.  La particella "quark", ad esempio, si chiama così grazie alla penna di James Joyce e a un passo del suo Finnegans Wake. E poi ci sono le ben note "Dolly" dalla prosperosa cantante Dolly Parton e "Lucy" dai Beatles. I paleoantropologi scopritori dei fossili di homo floresiensis intendevano utilizzare, almeno informalmente, il termine "Hobbit" per questa loro importante scoperta. Sembra che i detentori dei diritti cinematografici dell'opera di Tolkien abbiano fatto tuonare la loro diffida. Il risultato? Marcia indietro. Chissà quale nome definitivo prenderà questa scoperta paleoantropologica...

venerdì 23 novembre 2012

Naming e pronuncia, un binomio fondamentale anche per le "neutre" sigle

Vi siete mai chiesti perché IBM o LG sono sigle e brand names che leggiamo all'italiana, mentre, nel caso della storica azienda tedesca AEG, ricorriamo quasi tutti a una poco familiare pronuncia tedesca, senza pensarci, in automatico, anche chi non ha mai fatto nemmeno la lezione numero 1 di tedesco sull'alfabeto? Eccoci catapultati nell'insidioso territorio-binomio di naming e pronuncia. Un nome che sia anche anche bello da vedere (magari per una simmetria interna di lettere) ma difficile da pronunciare, fosse anche soltanto in determinati paesi, può essere un nome problematico e da evitare. Questo è un fatto assai noto a chi si occupa di naming. Ma con le sigle come la mettiamo? Con le sigle, il problema della pronuncia si risolve alla base?

I nomi di aziende-brand espressi da una sigla sembrerebbero sfuggire a queste problematiche. Nella loro neutralità infatti si adattano e vengono plasmati a seconda dell'alfabeto fonetico di un determinato paese e di una data lingua che ne accoglie i prodotti (naturalmente si deve fare attenzione che la lettura della sigla non incappi in qualche suono-allusione poco desiderabile). Ci sono però delle eccezioni che hanno fatto a loro modo scuola e epoca. Questa situazione abbastanza diffusa di "metamorfosi della pronuncia della sigla-nome a seconda del paese" stava probabilmente stretta all'azienda tedesca AEG, che è riuscita a imporre (è proprio il caso di scrivere "imporre letteralmente") una pronuncia tedesca, con quella "ghe" finale così caratterizzante. Possiamo solo immaginare quale lavoro capillare, indefesso, metodico e costante sia stato necessario per imporre questa pronuncia a livello mondiale, affinché oggi AEG sia pronunciato alla stessa maniera a Roma come a Lisbona. Penso sarebbe interessante ricostruire il ruolo fondamentale di tutti gli attori della catena, dal top management dell'azienda al rivenditore di una lavatrice AEG, che quasi sempre la presenterà nel segmento premium assieme a una Miele (nome interessantissimo e strano, in grado di creare determinati cortocircuiti semantici, se si pensa al settore, ma pure efficaci sinergie come quando gioca in tandem col design del cestello a "nido d'ape"). Naturalmente a tutti è nota la motivazione principale di questo sforzo: attraverso quella G pronunciata "ghe" passa il paese del "made in", è veicolata la Germania, con tutte le sue connotazioni di affidabilità, qualità, durata, efficienza, tutte caratteristiche imprescindibili per un elettrodomestico. Insomma, la pronuncia di un nome rimane e rimarrà sempre un versante fondamentale della valutazione di un'operazione di naming, anche nel caso delle apparentemente innocue e neutre sigle.

sabato 17 novembre 2012

Il naming di un preservativo e lo strano caso della cittadina francese di Condom

"In questo grosso mercato di opinioni concorrenti / puoi pescarti un’idea tra le tante stravaganti / e poi ci sono le ricerche, tanti pensieri alternativi / che ti saltano addosso come le marche / dei preservativi." Cantava questo Giorgio Gaber nella sua canzone "C'è un'aria". In effetti facendo una ricerca su un fornitissimo sito di preservativi, dove poter confrontare sinotticamente tutte le scelte di naming per questo tipo di prodotti, possiamo capire cosa intendesse Gaber. Non mi soffermerò sulle peculiarità di questo prodotto parafarmaceutico venduto e distribuito nei luoghi e nelle modalità più improbabili, un tempo oggetto stesso di campagna di marketing e usato alla stregua di un gadget per "comunicare qualcosa". Rimango aderente al tema del blog e al fatto che stiamo parlando di un prodotto "tra gli altri" che ha determinate specificità, in quanto attorno a una "tecnologia" tutto sommato semplice si è scatenata una battaglia per il posizionamento e la differenziazione. Sono davvero tante le marche e le linee in questo settore. Non sto nemmeno qui a citarle tutte, anche se potrebbe essere un esercizio inedito per individuare mosse e contromosse di una battaglia di differenziazione che si gioca soprattutto sul naming, sul packaging, e sulle caratteristiche di costruzione, profumazione o "performance". Per chi pensa possa essere interessante, basterà monitorare questo settore a suo modo "vivace" e capire, di volta in volta, le ragioni che hanno condotto a una determita scelta di naming all'interno di una precisa strategia di marketing.

Ma l'occasione-"condom" è troppo ghiotta per non parlare della cittadina francese di Condom, nella regione Midi-Pyrénées, Gers, i cui cartelli stradali sono da sempre bersaglio degli scatti fotografici ilari dei turisti. Come potete apprendere da questa notizia, la faccenda si è spinta oltre, visto che due imprenditori francesi hanno pensato di usare questo toponimo per lanciare una marca che si autodefinisce nella pubblicità "The Original Condom Company". Peccato che i profilattici fossero prodotti in Malaysia e che l'indirizzo di residenza dell'azienda a Condom sia stato trovato inoccupato. Tutto si è risolto con una multa di diecimila euro. Anche se il sindaco della cittadina vorrebbe usare altre particolarità per spingere il turismo in quei luoghi, non può non dimenticare il toponimo che gli è toccato in sorte gestire. Questo resta un caso curioso di come un toponimo (in questo caso coincidente con il nome della product category) venga gettato nella mischia del naming e della competizione. La cosa che poi ha quasi del grottesco è che il fiume che passa per Condom si chiama
Baïse, parola che, senza dieresi, in francese viene usata per esprimere volgarmente l'atto sessuale. Insomma, un destino tutto strano quello di questa cittadina tra castelli e foreste sul fiume Baïse e di certo non ci stupiamo che a partire da questi nomi esistenti qualche imprenditore-storyteller abbia pensato di farci dei soldi.

giovedì 8 novembre 2012

Opel Mokka, naming d'auto coi memi?

Curioso e interessante il naming adottato da Opel per il "compact SUV" con il quale andrà a competere su questo segmento a quanto pare strategico. Ma non occupiamoci di vendite di auto (in questo periodo meglio evitare l'argomento) e rimaniamo al nome adottato. Quando ho visto la pubblicità con il nuovo nome, ho naturalmente pensato a quella moka per il caffè che ultimamente sembra perdere terreno a favore del caffè porzionato (alla faccia del refrain dell'ecostenibilità!). Wikipedia (esiste già la pagina Wikipedia del veicolo) recita "The Mokka name derives from the small, round coffee beans of the Coffea Arabica variety." Sembra chiaro il riferimento ai "memi" che forse hanno fatto definitivamente propendere per questa scelta. Si evoca quindi un chicco di caffè (caffè come qualcosa che dà la carica, ogni giorno, soprattutto nei momenti di stanchezza, di una bevanda sempre più "vincente" dei giorni nostri) e un "piccolo chicco", rimandando così alle dimensioni compatte di quest'auto, in una cornice da manuale di marketing in cui il nome serve soprattutto a posizionare il prodotto ("Your name is your most important weapon in the battle for the mind", sostenevano Ries e Trout).

Si tratta di un naming che suscita senz'altro curiosità, sorprendente e inatteso. Un buon nome può servire anche a tutte queste cose, a stupire. Non presenta particolari difficoltà di pronuncia e porta con sé valori positivi come energia, prestigio (quello legato alla varietà Arabica del caffè) e persino una certa rotondità di forme/design. In un articolo apparso sul sito Boldride.com leggiamo:

With all these features, the Mokka has been designed for people with active and refined lifestyles. This is also reflected in its name which is inspired by the small, round coffee beans of the prestigious Coffea Arabica variety. Mocha-based coffee beverages are sophisticated and cultivated, rich in character and full of energy. Just like them, the Opel Mokka is compact whilst big in attitude.

Il caso, nel suo complesso, è curioso perché mi ricorda chi ha provato a suggerire uno scenario in cui i "memi" di Richard Dawkins possono essere impiegati proficuamente in operazioni di naming. Provate anche a leggere questa pagina di Wikipedia. Forse il naming coi memi è già una realtà consolidata...

sabato 3 novembre 2012

Papageno, la rivista che col nome e col logo dice cibo, vino e Mozart

Tanti anni fa lavoravo in un'agenzia pubblicitaria. In quel frangente, tra i vari progetti, si stava lanciando una rivista di "saperi e sapori tra Adige e Danubio". Il concetto era circa questo: raccontare attraverso una rivista bilingue (italiano e tedesco), ineccepibile dal punto di vista grafico e fotografico e vestita dalla mano di bravi illustratori, i luoghi, i cibi e le bevande di quei luoghi che comunemente vanno sotto la denominazione di Alpe-Adria. Arrivai in agenzia a naming già compiuto. Mi fu spiegato sia il naming sia il logo. Li reputo ancor oggi esempi interessanti nel loro gioco combinato. "Papageno" è un personaggio dell'opera mozartiana Die Zauberflöte. Quasi mai, sinora, abbiamo parlato di letteratura, arte e musica come serbatoi per determinate operazioni di naming, eppure sono questi capitoli da conoscere, sviscerare e studiare. Qui abbiamo un esempio limpido di un naming "fornito" dalla storia della musica. Ciò che è doppiamente interessante in questa operazione di naming è la "sinergia" che si è creata (e che sempre si dovrebbe creare) tra naming e brand identity. Il logo della rivista, per il quale si è optato per un'elegante font con grazie, presenta la G ribassata al centro, al di sopra della quale è posta la silhouette dell'uccellatore Papageno. Ciò che tale accorgimento consente è la separazione del nome in due parti, da un lato PAPA e dall'altro ENO: ecco allora cibo e vino, due vettori importanti della linea editoriale e dei contenuti della rivista che ha ospitato, tra gli altri, contributi di Hans Kitzmüller, Predrag Matvejevic, Paolo Maurensig, Giorgio Pressburger e Mario Rigoni Stern.

sabato 27 ottobre 2012

Digestive McVitie's, i biscotti che non sono digestivi

Nella confezione lo scrivono: questi biscotti non hanno proprietà digestive. Eppure chissà se quel nome, che anche in inglese ha a che fare con la digestione e l'apparato digerente, è servito a contribuire al duraturo successo nel mercato italiano. A ben vedere, non sono molti i biscotti non italiani che si sono imposti negli scaffali. Lo trovo un naming singolare. Da un lato il significato di "digestivo" è già presente nella lingua madre, quell'inglese richiamato come valore del prodotto dalla Union Jack posta nel retro della confezione e dall'altro registriamo la conservazione di quel significato anche nella lingua d'arrivo. A conclusione di questo ipotetico circolo virtuoso, troviamo però la dichiarazione del produttore: trattasi di biscotti che non hanno proprietà digestive. Il mondo del consumo è attento, talvolta ipercritico, talvolta beve e mangia di tutto. Quasi sicuramente, in questo caso, c'era il rischio di incorrere in un potenziale "inganno" del consumatore, proveniente non tanto dalla pubblicità (come spesso accade), bensì dal nome stesso. Ecco quindi le dichiarazioni del produttore sul retro della confezione. Certo che con un nome del genere è difficile pensare che almeno un aiutino alla digestione questi biscotti non lo diano (e comunque difficilmente penseremo a questi biscotti a base di frumento come "indigesti")!

sabato 20 ottobre 2012

Ancora sul naming di collane editoriali. Tornano "Le Silerchie" per Il Saggiatore

Che per l'editoria tradizionalmente intesa sia un momento singolare, unico, forse di svolta questo credo sia chiaro. Non parlerei nemmeno di crisi perché non ha senso, visto che non è la lettura, nel mondo almeno, ad essere profondamente in crisi (in Italia parzialmente sì, visto che proprio di recente due editori di piccole o medie dimensioni mi confermavano che i loro distributori considerano "a monte" perso il mercato del Sud dell'Italia... un dato economico e commerciale che mi ha fatto riflettere molto e che non so ancora ben interpretare, anche in chiave futura). Non parlerò però di ebook, di editoria digitale e altri sviluppi. Come è accaduto altre volte, mi soffermerò sul naming di collane editoriali. In questo caso si tratta di un naming riproposto dopo tanti anni, di una sorta di "ritorno alle origini" e alla riscoperta della storia della casa edrice e del valore del marchio che continua a rappresentare. Trovo curisioso come un "vecchio" palinsesto e contenitore editoriale come quello di "collana", una specie di ambiente ecosistemico che accoglie libri accomunati da qualcosa, dia prova di buona tenuta nel panorama contemporaneo, se non altro in quella sacca di resistenza che comunemente va sotto l'etichetta di "lettori forti". Le collane diventano allora microbrand editoriali con titoli, grafica, strategie promozionali dedicate e, nella loro elasticità, si prestano a catturare di volta in volta un trend, più o meno consolidato, una sensazione, un mood, un gruppo di testi, conferendo a questi un aspetto materialmente riconoscibile nel momento storico in cui l'editoria e il suo oggetto principe, il libro, sembrano in procinto di smaterializzarsi.

Recentemente la casa editrice Il Saggiatore, diretta da Luca Formenton, ha riproposto la storica denominazione de "Le Silerchie" come naming di una collana editoriale. Non sta riproponendo i titoli del passato, cioè di quegli anni Cinquanta e Sessanta in cui tale collana si affermò come fiore all'occhiello dell'editoria italiana, grazie all'intuizione felice di Alberto Mondadori coadiuvato da quel grande critico che fu Giacomo Debenedetti.

Ma cosa sono le Silerchie? Fu lo stesso Mondadori a spiegare il nome della collana a un lettore che s'era dimostrato incuriosito: 

Via delle Silerchie è una strada di campagna che si stacca dalla Nazionale Camaiore-Lucca, si inerpica sulle prime balze delle Alpi Apuane, poi diventa sentiero tra i boschi. Nell'ideare una collana di brevi libri attraenti e spesso illustri come il paesaggio della Versilia (si passa fin da queste prime tappe per Thomas Mann e Chagall, per Kafka, Alceo, Saffo, Jaspers), mi è parso di invitare il lettore a una poetica passeggiata, come quella che offre la via delle Silerchie, dove il paesaggio varia e si allarga di continuo.

Alberto Mondadori, dopo questa premessa alla Robert Walser, aggiungeva anche:

Siler, con il diminutivo silercula, rametto di vetrice con cui si facevano bastoncelli magici usati per scacciare le malattie e gli spiriti maligni, si offre un'interpretazione della collezione. Una collana dunque che mette in fuga malanni e malefizi: le confesso che mi rallegra l'idea di aver trovato senza saperlo un nome di così buono augurio per i lettori della Biblioteca delle Silerchie.

Nomen omen, valeva questo detto anche per il grande Alberto Mondadori, e di sicuro vale oggi per Luca Formenton, alla guida della casa editrice che porta un nome galileiano. "Silerchie" rimanda quindi a un nome di un luogo. Spesso si sente dire che i nomi dei luoghi non sono opportuni in operazioni di naming, e questa convinzione ha motivate ragioni che magari approfondiremo più avanti. Ci sono tuttavia nomi di luoghi (ad esempio Tiscali) che proprio in virtù del loro essere luoghi appartati e poco noti hanno saputo imporsi. Per le vecchie Silerchie questo era vero. Ci auguriamo lo stesso per le nuove.

(Sopra vi mostro come sono oggi "Le Silerchie" e com'era una vecchia copertina della collana. Non è difficile notare come "l'effetto Paolo-Giordano-Solitudine-Numeri-Primi" abbia davvero contaminato l'odierna grafica editoriale italiana, mentre appare davvero innovativa la copertina che fu riservata a Il trifoglio fiorito di Rafael Alberti. Che quello dell'editore debba tornare ad essere anche un mestiere "di coraggio"?).

sabato 13 ottobre 2012

Malanotte, il nome della Docg del vino

Il naming di un singolo vino può risultare molto importante, ne abbiamo già accennato. Ma anche il naming di una Docg può diventare, a sua volta, estremamente importante per le sorti di un vino prodotto secondo un determinato disciplinare e che giustamente aspira a farsi conoscere, non soltanto in Italia. Negli ultimi anni si è parlato spesso di Raboso, un vitigno tipico della zona del medio Piave. Le origini del nome Raboso sono contornate da una certa foschia. Più chiare invece le origini del nome che recentemente ha dato vita alla Docg Malanotte, mediante la quale viene nominato il "Raboso Piave" prodotto secondo una scrupolosa procedura. Il nome deriva da una famiglia insediatasi nel borgo omonimo di Tezze di Vazzola. Oggi, se vi capita di passare per Tezze, potete visitare questo borgo, denominato appunto Borgo Malanotte, la cui storia è anche intimamente legata agli avvenimenti della Prima guerra mondiale. Nel corso di quasi due secoli, questa famiglia introdusse radicali innovazioni agrarie in quel territorio planiziale (per inciso, territorio attraversato da un Piave che ha ancora l'aspetto torrentizio di un fiume di montagna e che diventa via via più addomesticato fiume di pianura verso Ponte di Piave e Salgareda) e che da Lovadina-Maserada sale dolcissimamente verso Conegliano, cittadina già in collina e sede dell'importante scuola enologica assai rinomata. Tale denominazione consente così di "dare un nome" al Raboso che negli ultimi anni aveva fatto parlar di sé. Questo vitigno, recuperato con grande acribia filologica e la cui lavorazione viene incanalata in una severa disciplinare, può finalmente essere proposto in bottiglie che riportano una dicitura come quella visibile nell'immagine sopra.

Da un punto di vista squisitamente commerciale e di marketing, quello che poi riguarda un blog come questo, un nome come Malanotte può giocare a favore dello sviluppo e della crescita della notorietà del brand-docg, evocando appunto un momento "incantato" della giornata, quella notte ricordata anche dalla falce di luna sopra le lettere -an- e che, probabilmente, richiama uno dei momenti-chiave del consumo del vino stesso. La configurazione quadrisillabica del nome non crea particolari difficoltà di pronuncia, anzi, conferisce corpo, sapore e rotondità al nome stesso. Buona fortuna allora a questo nome e, assieme ad esso, a questo vino di questi luoghi belli, così vicini a dove scrivo. Il quadro è completato dalla presenza del nome "Piave". Non ho dati certi in mano, ma credo che pochi fiumi, almeno in Italia, abbiano anche un peso così importante nel definire un universo di prodotti enologici. Curioso infine il fatto che la denominazione "Malanotte" già esistesse, depositata dalla locale cantina che, con lungimiranza, ha ceduto il marchionimo al consorzio di tutela.

sabato 6 ottobre 2012

I nomi degli yogurt da bere. La volta di Yakult

Mi pare di rilevare, dal mio limitato osservatorio, un movimento abbastanza vivace (o "frizzante", per usare un aggettivo di moda che però lascerei all'acqua e al vino e non riserverei ai nostri yogurt di oggi) nel settore degli yogurt-drink probiotici o yogurt da bere che dir si voglia. Ne abbiamo già parlato. Tra gli altri si ricordano Actimel di Danone, Lc1 di Nestlè e di recente pare aver attecchito abbastanza pure Yakult.

Nel sito italiano dedicato del prodotto leggiamo queste parole: 

Il nome “Yakult” si ispira alla parola “yahurto”, che in esperanto significa yogurt. Il nome fu scelto nel 1935 dal Dott. Minoru Shirota, lo scienziato e medico, nonché il fondatore di Yakult, che per primo isolò e coltivò il Lactobacillus casei Shirota (LcS). Il Dott. Shirota scelse l’esperanto perché all’epoca si pensava che sarebbe diventata la lingua mondiale e perché voleva rendere Yakult disponibile in tutto il mondo. 

Questa è la spiegazione di fonti ufficiali. Si configura quasi come una storia di un nome che racchiude al suo interno la cosiddetta mission. Quello che ravviso è comunque una tendenza al nome "pseudomedicinale" in queste categorie di prodotto. Sono yogurt probiotici e si posizionano sul terreno dell'alimentazione salutista-salutare. Il nome Yakult fonde al suo interno un inizio perfetto, "intonato" per la categoria (quella Y che lo accomuna a Yogurt o "yahurto") e la posizione delle lettere U e T, proprio come nella parola YOGURT: yAKuLt-yOGuRt. Ha quel suono che sa quasi di medicinale, e questo lo spinge a posizionarsi in un terreno assai vicino a quello dei concorrenti principali.

Che cosa succede però? Se il nome non si differenzia apertamente rispetto alla concorrenza, oppure se gioca altrettanto apertamente una strategia me-too (così come un croissant Paluani chiamato Palì corre in parallelo al ben noto Bondì Motta)
, allora intervengono altre strategie di differenziazione. E così mi pare di notare avvenga per Yakult: una diversa penetrazione del mercato in termini di tempo, con molte sponsorizzazioni in ambito sportivo, un solo gusto disponibile e non una marea di gusti come i prodotti concorrenti, quasi a sottolineare la fedeltà a un'antica formula di preparazione che si tramanda uguale da decenni, il packaging minimalista, che cadenza il consumo quotidiano in una confezione da 7, la differente forma della bottiglietta, che è tra l'altro più piccola (altro fattore che può rimandare ad esempio alle confezioni di fermenti che normalmente assumiamo). Insomma, in poche parole, i nostri nomi di prodotto non sono certo l'unica via per differenziare e posizionare un prodotto, è bene ricordare anche questo, che non sminuisce l'importanza "relativa" del naming in quadro di branding che potremmo definire olistico.

venerdì 28 settembre 2012

Apple tra naming e copy-strategy: iPhone 5 definito "il più grande evento nella storia di iPhone dopo il primo iPhone"

Esce iPhone 5. Apple, in passato, ha fatto scuola di naming, non da ultimo il nome Apple stesso, che rappresentò una vera cesura col passato dei nomi dei prodotti tecnologici, spesso ostici e incomprensibili, diciamo pure assai s-memorabili. Negli ultimi anni l'azienda sembra invece aver cambiato rotta, optando per una sorta di risemantizzazione dei nomi comuni e anteponendo quella "magica i" a parole semplici del dizionario inglese, nomi descrittivi e di uso comune: pad, phone, book. In questi giorni si fa un gran parlare del nuovo "oggetto", quell'iPhone 5 che già starà turbando i sonni di qualcuno. Riflettevo sui piani di obsolescenza pianificata, normali in qualsiasi settore industriale, riscontrabili nel nome del prodotto. Banalmente, davvero molto banalmente, mi chiedevo fino a quale iPhone arriveremo prima di assistere a un renaming e rebranding di iPhone. Bisognerà superare la decina? Come vi suona iPhone 11 o iPhone 22? Sono pensieri che magari lasciano il tempo che trovano, e quasi sicuramente l'azienda di Cupertino avrà già pronta la nuova strategia di naming, parallela e accompagnatrice di una nuova strategia di linee di prodotto e della loro conseguente penetrazione nel mercato. Eppure una copy-strategy che prevede affermazioni come Il più grande evento nella storia di iPhone dopo il primo iPhone lascia intravedere una sorta di bivio che l'azienda sta forse avvicinando, se non altro nel naming: continuare a sfruttare l'awareness e l'inossidabilità del brand name consolidato da una parte e dall'altra la difficoltà di comunicare innovazione ricorrendo sempre al solito nome, aggiornato soltanto nella parte numerale. Se iPhone 5 è davvero un "grande evento nella storia di iPhone", un'innovazione vera, che meritasse un renaming radicale, alla radice quindi, non solo nella parte numerale?

Ma riflettevo appunto sulla tendenza (non solo di Apple, anche se Apple è sicuramente l'azienda più in vista) di postporre al nome un numero. Fino a quale cifra si può arrivare prima di "stancare"? Naturalmente è verò che una volta lanciato, il prodotto vive del brand principale (si scrive "inviato da iPhone" e non "inviato da iPhone 4", si dice "lo vedo su iPad" e non "lo vedo su iPad 3"), però è altrettanto vero che quel numero postposto al brand principale diventa importante nella fase di lancio (e tutti sappiamo che cosa significa e comporta la fase di lancio di prodotti come questo). Per queste ragioni mi chiedevo se un giorno, neanche tanto lontano, parlare di iPhone 9 potrà sembrare esagerato, per quel suffisso numerale troppo elevato. Magari si parlerà semplicemente di "nuovo iPhone", così come si parla di "nuova Golf". Oppure ci sarà un nuovo prodotto con brand completamente mutato. Non saprei davvero. Resta che Apple si candida sempre ad essere un'azienda di tendenza anche in ambito naming, qualsiasi cosa faccia. E qualsiasi cosa faccia, anche in ambito naming, troverà sicuramente chi è pronto a seguirne i passi. Mi pare tutto abbastanza ovvio, se di "fare tendenza" si tratta.

venerdì 21 settembre 2012

Traduzione, suono, senso e posizionamento di un brand name. Il brand naming in Cina #2

Proseguo sulla via verso la Cina. Qui accanto trovate l'immagine dell'incarto di un celebre snack dolce e del corrispettivo incarto cinese. Contestualmente trovate pure la trascrizione in idiogrammi unita a una trascrizione fonetica in caratteri latini e, infine, il significato del nuovo brand name. L'immagine accanto rappresenta un veicolo estremamente interessante per circolare negli universi di senso e suono del brand naming in Cina. Vi rimando poi, sempre per quel che concerne la trascrizione fonetica in caratteri latini del brand name in cinese, a questa pagina. Per chi voglia avvicinare il brand naming in Cina appare chiaro che la riflessione teorica si attesterà sui seguenti punti/assunti/caposaldi:

1. i caratteri latini non comunicano granché alla maggior parte della popolazione cinese, quantomeno a quella larghissima fetta che ancora non mastica almeno l'inglese.
2. Si può optare per nomi che "mimino" il suono occidentale (Nike, trascritto foneticamente con "Nai Ke"), parzialmente vicini (BMW che diventa "Bao Ma") o nomi completamente lontani dalla correspettiva pronuncia "occidentale" (mi pare il caso dell'immagine dello snack sopra riportata).
3. Si deve fare i conti con una mentalità diffusa che ricerca nel nome del prodotto determinati caratteri ricorrenti ("Li" ad esempio appare spesso nei nomi e sta per "potenza", mentre "Xi" per "felicità, gioia").
4. Diventa fondamentale raggiungere un equilibrio tra suono-significato-posizionamento e quindi adoperarsi per un mix quasi perfetto di fonetica-semantica-marketing.
5. Uno stesso suono "mimato" può prendere vie di caratteri cinesi diversi, e diventa fondamentale, davanti a più caratteri che hanno simili pronunce, optare per il più adeguato dal punto di vista del significato.
6. Il suonare immediatamente bene, in modo autentico e originale all'orecchio cinese diventa allora il motivo della sfida di chi ricerca un nome per un brand da lanciare e esportare nel mercato cinese.

Siamo davvero di fronte a un lavoro arduo, che abbraccia spostamenti minimi e strategici suoi suoni, sulle sfumature di significato, sul passaggio tra alfabeti e sistemi di scrittura radicalmente lontani. Il tutto senza dimenticare quelle prerogative che qui, nel mondo  cosiddetto occidentale, si danno per scontate in ogni operazione di naming, vale a dire l'aspetto di marketing (positioning) e l'aspetto legale. Insomma, un lavoro davvero proibitivo, da approcciare con estrema prudenza se non si vuole rischiare di essere... lost in translation. Naturalmente diventa un lavoro impossibile per chiunque non conosca la lingua d'arrivo. Tuttavia, da qui, possiamo iniziare a capire quali sono le possibilità e le insidie più comuni, quali sono i casi concreti che ci possono insegnare qualcosa nell'erta via del naming in Cina.

venerdì 14 settembre 2012

Com'è la Coca-Cola a Shenzhen? Il brand naming in Cina #1


Vorrei prendere spunto da questo non recentissimo articolo del New York Times per aprire un nuovo filone di post di questo blog: un percorso, sicuramente ad ostacoli, nell'affascinante mondo della traduzione/ricreazione del brand name in cinese. Si tratta di un argomento molto sentito dalle aziende italiane e comunque dai brand occidentali in genere, sia perché riguarda un mercato potenzialmente vastissimo sia perché impatta nel mercato principale che sale agli onori della cronaca quando si pensa a problematiche di tutela legale e di contraffazione del marchio. Il passaggio chiave dell'articolo del NYT è, a mio avviso, il seguente:

And so the art of picking a brand name that resonates with Chinese consumers is no longer an art. It has become a sort of science, with consultants, computer programs and linguistic analyses to ensure that what tickles a Mandarin ear does not grate on a Cantonese one.

Sono righe che stanno a dimostrare tutte le difficoltà di avvicinare il lavoro sul nome di azienda, di marca e di prodotto in un paese come la Cina. In passato si sono valutate molte strade di traduzione, traslitterazione, traduzioni letterali o pseudotraduzioni, magari inseguendo un "addomesticamento" dei nomi occidentali nel mercato asiatico. Quello che scopriamo leggendo l'articolo di Michael Wines è un mondo di rompicapi affascinanti, che toccano le diverse sfere della lingua, della comunicazione verbale e visiva e che chiamano a raccolta competenze plurime. In fin dei conti è proprio questo il bello e il difficile dell'arte-scienza del naming: vivere in un'area indefinita che copre linguistica, sociolinguistica, semiotica, fonetica, marketing e diritto. Tenere assieme tutte queste competenze non è un lavoro facile, questo assunto di base credo che oramai sia chiaro a tutti i lettori del blog.

sabato 8 settembre 2012

Dada, quel naming così semplice e memorabile avvolto dal mistero

No, non parlo dell'importante società di servizi operativa in ambito web. Naming e arte vanno a braccetto. Già ho sostenuto qualcosa di simile e parlando del Dada non si può che ribadire questo concetto. Il movimento Dada, nato nella seconda metà degli anni Dieci in Svizzera, quando altrove imperversava la Prima guerra mondiale, tornò molte volte sull'atto di nascita di quella parola. Ancor oggi non si sa di chi sia la paternità. Hugo Ball? Tristan Tzara? Eppure quella scelta, quella parolina semplicissima, bisillabica, data dalla ripetizione di una delle primissime sillabe pronunciate dai bambini, era destinata a fare molta strada. Sappiamo la rilevanza del movimento Dada, il suo incancellabile apporto nella storia dell'arte (pur partendo da posizioni apertamente anti-artistiche). Qui ci soffermiamo naturalmente sul naming per ribadire un concetto molto semplice, cioè che una coscienza dell'importanza del nome è pervasiva in moltissimi ambiti e non è soltanto requisito dei nostri nomi di marca, prodotto o azienda. Può sembrare banale affermarlo e ripeterlo. Ma a volte può sfuggire come questa coscienza dell'importanza del naming fosse in realtà già radicata in altri ambiti, diversi da quelle delle marche commerciali. Il problema del brand o product naming si pone relativamente tardi, sicuramente più tardi, ad esempio, di questa parolina semplicissima che rimanda al cavallo a dondolo. Due sillabe, facilità di pronuncia, assenza di connotazioni negative, una "semplicità di spirito" pronta ad accogliere un intero movimento artistico: che ci avessero pensato i dadaisti quando optarono per Dada? Se ci fosse una gara per il naming più facile da ricordare, forse il nome Dada la vincerebbe...

giovedì 30 agosto 2012

Ancora sul naming museale: il futuro Museo delle Culture del Mondo di Milano

Da quel che si è letto recentemente, dovrebbe andare in porto il progetto Museo delle Culture del Mondo - Città delle Culture nell'area ex-Ansaldo di Milano. Il nuovo spazio, firmato dall'architetto David Chipperfield, è stato protagonista dei soliti su e giù legati alla politica italiana. Ora però sembra pronto ad avviarsi al taglio del nastro. Si ripresenta, come in passato su queste pagine, l'occasione e l'opportunità di riflettere sul naming museale: quale nome è opportuno e giusto dare a un nuovo museo? A maggior ragione oggi, quando i musei sono prodotti considerati fondamentali nelle urbanistiche della contemporaneità e grimaldelli importanti per aprire la strada al rilancio di determinate aree, come si deve avvicinare la scelta strategia di un nuovo nome, il quale poi viaggia accanto a nomi del passato urbano di una data città, com'è questo caso, dove leggerete spesso "ex-Ansaldo"?

Nel precedente post dedicato al naming dei musei (d'arte), lamentavo una certa facilità all'acronimo, una tendenza dilagante, che poi sfociava in un grande mare di nomi di musei inizianti tutti per MA-. Non so se Città delle Culture/Museo delle Culture siano denominazioni definitive, la realtà è che di questo "bambino nel grembo" della più grande città italiana settentrionale si parla e si scrive proprio in questi termini. Riflettevo sull'opportunità, sul suono e pure sul senso di un nome come "Museo delle Culture". L'intento è abbastanza chiaro, è un nome descrittivo, per cui non lascia adito a dubbi: ci facciamo un'idea abbastanza precisa di quello che ospiterà. Però mi pare ci sia qualcosa che stride, temo la vicinanza delle parole "Museo" e "Culture"; forse il problema sta più nello statuto, in parte da rivedere, del "Museo", di qualsiasi tipo esso sia. Sembra possa crearsi un grande attrito tra ciò che atto a conservare e promuovere (museo) e ciò che, se esiste, è flusso costantemente in via di ridefinizione (culture), anche se la parola "cultura" meriterebbe un'enorme parentesi, visto che spesso è un paravento per non affrontare davvero i venti dell'oggi. Sicuramente gli operatori si saranno posti normali problematiche di branding relative a questo nuovo museo di Milano e, al di là del nome di David Chipperfield speso per la progettazione, staranno ragionando sulle più opportune strategie di verbal branding e naming per questa struttura. A loro vanno naturalmente i migliori auguri di buon lavoro.

sabato 25 agosto 2012

Il naming in meteorologia

Tempo fa feci a meno di scrivere sul naming degli uragani, anche se l'argomento era all'ordine del giorno e forse meritava un post. Dopo una simile estate, dove la mitologia s'è fatta meteorologia, qualche breve appunto sul tema del naming in meteorologia va fatto.
Dare un nome alle ondate di calore ha senso perché forse agevola la comunicazione, consente paragoni, più facili archiviazioni, statistiche e comparazioni a distanza di anni. Ma soprattutto il naming in meteorologia è stato ampiamente abbracciato dal giornalismo. L'ho già scritto, parlando di "naming delle notizie": la notizia è una merce tra le altre, anche se delicata, con uno statuto proprio e peculiare (almeno nella teoria). E per vendere un prodotto-notizia potenzialmente "vuota" come il caldo o il freddo, disporre di alcuni nomi-brand può essere un vero e proprio aiuto. Tutto questo si inquadra poi dentro una cornice del tutto peculiare di grande, a volte incomprensibile, interesse per il meteo. App per cellulare, siti che spopolano con picchi di traffico inimmaginabili, discorsi d'ufficio sul meteo anche quando ci attende un weekend indoor. Se ci pensate, c'è qualcosa che non va in tutto questo strano interesse per il meteo, che poi è un interesse frammentato, da bar (come spesso è stato anche in passato), rigorosamente concentrato sull'oggi e che non lascia spiragli a un interesse per l'evoluzione meteo e climatica nel lungo-lunghissimo periodo. In questo quadro, un nome come "Caronte" aiuta a vendere meglio il prodotto-notizia relativa al meteo. Allora sembra quasi di poterlo domare questo caldo dal nome di "Caronte", fa forse meno paura se conosciamo almeno il suo nome, il suo volto, "dimonio, con occhi di bragia".

sabato 18 agosto 2012

Giallo, il canale tv con un nome che (finalmente) posiziona

In altre occasioni mi è capitato di parlare del naming dei canali tv. Dopo l'avvento del digitale terrestre, nominare un nuovo canale è stata un'operazione frequente. Sugli esiti e sui risultati di queste operazioni di naming si potrebbe discutere a lungo, come del resto sulle linee editoriali e sui palinsesti a dir poco fiacchi. Probabilmente naming e linea editoriale specchiano spesso lo stesso vuoto d'idee e progettuale. Diverso il caso di un canale tematico apertamente dedicato al giallo d'autore e denominato semplicemente ed efficacemente Giallo. Scelta interessante, innanzitutto perché non mi risulta che un colore avesse mai tenuto a battesimo un canale tv, secondo perché posiziona perfettamente il palinsesto e l'offerta del canale e infine perché il colore in sé è spesso una semplicissima ma efficacissima leva di marketing, soprattutto per il lancio di nuovi prodotti. Vi siete mai chiesti perché dei nuovi modelli di auto siano spesso presentati negli spot di lancio con colori davvero strani, che poi difficilmente ritroverete per la strada? Un colore posiziona efficacemente dentro la testa, rende riconoscibili, agisce sulla memoria. Così è anche il caso del particolare tono di giallo di Giallo...

sabato 11 agosto 2012

Singolare e plurale nei nomi di marca e prodotto

Quanti prodotti hanno un nome al plurale? Pensate ai biscotti, come quelli a fianco. Se chi mi sta davanti ha la confezione in mano, certamente chiederei "Mi allunghi per cortesia una campagnola?". Il nome di marca e prodotto dovrebbe tuttavia essere unico, inconfondibile. Dovrebbe essere quindi invariabile? Sempre al singolare o sempre al plurale? Lo notiamo da quest'esempio: esiste ancora una questione aperta su singolare/plurale dei nomi di marca, anche se non mi risulta che molta attenzione vi sia stata dedicata. Per le merendine Fiesta, ad esempio, hanno adottato un nome al singolare e difficilmente sentirete dire: "Oggi pomeriggio ho fatto merenda con due Fieste". Più probabile che il parlante dica: "Ho fatto merenda con due Fiesta". Spesso si ricorre al nome al plurare nel settore del food perché si rinvia al fatto che dentro la confezione c'è una pluralità di oggetti x. Sono allora le diverse quantità di biscotti e/o merendine presenti dentro una confezione a far propendere per la scelta di un nome al singolare o al plurale? Ad esempio, pensate ai ghiaccioli Polaretti per i bambini più piccoli. Vostro figlio vi chiederà: "Per favore, posso mangiare un Polaretto?". A mio avviso, quella di singolare vs plurale nei nomi è una questione non del tutto risolta. Gli esempi che ho fatto sembrerebbero supportare la tesi che è sempre consigliabile l'adozione di un nome al singolare. Provate però a pensare a cosa sarebbe l'universo dei nomi dei biscotti se improvvisamente nella confezione si leggesse "Krumiro". Qualcosa non vi quadrerebbe, c'è una certa aspettativa di nomi al plurale. Qualcuno potrebbe obbiettare che nel caso della foto, per esempio, i veri brand sono Barilla e Mulino Bianco, eppure vi invito a pensare che il brand sia anche "Campagnole", un nome plurale quindi costretto talvolta a "singolarizzarsi", soprattutto nel parlato (e un nome di marca vive anche nel parlato, non solo nello scritto o in un logo, diventa un fattore sociolinguistico quando entra nel discorso). Un brand come Mikado allora, tanto per non cambiare settore merceologico, beneficia dell'invariabilità tra singolare e plurale. Ho volutamente esagerato per portare il ragionamento alle estreme conseguenze, ma vi inviterei comunque a riflettere sull'opportunità di un'adozione di un nome al singolare o al plurale nelle vostre operazioni di naming, a maggior ragione se non disponete di un brand come Barilla/Mulino Bianco che, in fin dei conti, il naming in Italia l'ha quasi inventato!

giovedì 2 agosto 2012

Mtv cambia formula (e il nome è pronto ad aiutare)

Recentemente sono apparse alcune notizie riguardanti il cambio di passo in vista per Mtv. Il canale non è in ottima salute e allora si cambia formula. Fin qui nulla di nuovo, se non il fatto che un canale in passato molto seguito, da un target molto specifico e con una connotazione forte non sarà più 100% music driven. In effetti, a fare un'analisi rapida, per i video musicali la storia è cambiata, la fruizione su Youtube ha forse contribuito a dare una spallata al canale che ha accompagnato, più di altri, le giornate di molti giovani oggi meno giovani. (Da amante di certi videoclip poi mi sento di dire che il livello si è deteriorato - così mi pare - e non vedo più certe pillole che erano concentrati di poesia, filosofia e fotografia.) Sono cambiate tante cose, questo è chiaro a tutti. Cambierà quindi la formula. In un un blog del genere, potrebbe essere lecito chiedersi se cambierà anche il nome, dal momento che la musica non sarà più il solo grande ingrediente. Questo ancora non lo sappiamo con certezza, ma è lecito pensare che il nome rimarrà in futuro tale e quale. In fin dei conti il brand name Mtv, che notoriamente sta per Music Television, potrebbe essere benissimo un nome che si presta allo stretching del brand, proprio in virtù del fatto che la parola Music non è più parte integrante del nome. Il valore iconico di quella M gigante è poi fuori di dubbio per il target giovane sul quale la direzione continua a puntare. Si tratta di un esempio di un nome che non si ritrova in potenziale conflitto con operazioni di stretching/extension della gamma prodotti (in questo caso trattasi di prodotti editoriali televisivi, di un palinsesto). La migrazione annunciata per Mtv quindi può benissimo far leva su un brand storico, consilidato, su un nome "libero", pronto ad essere riposizionato su un nuovo territorio. Staremo a vedere, a sentire.

mercoledì 25 luglio 2012

UHU, la colla che si chiama "Gufo"

Uhu è un brand di origine tedesca molto noto, appartente alla grande tradizione chimica di inizio Novecento di quel paese. Il nome è semplice, breve, insolito, nella sua semplicità pone quasi degli interrogativi sulla pronuncia. Provate a pronunciarlo... come lo pronunciate? E poi, un nome chiaramente onomatopeico persegue degli obiettivi di fonosimbolismo anche nel naming di prodotto? Perché mai un nome di una colla dovrebbe ricercare sbocchi fonosimbolici? Ma soprattutto, è giunto il momento di svelarlo per chi già non lo sa, lo sapevate che in tedesco "Uhu" è il gufo? La pagina inglese di Wikipedia dedicata al brand sostiene che la pronuncia debba essere "ooo-hoo", anche se in molti paesi di lingua inglese spesso sfocia in "you-hoo". Sempre questa pagina è ricca di informazioni che guardano proprio alla storia e alla storia del nome in particolare. Ricorda come fosse una consuetudine nominare i prodotti del settore "writing goods sector" con nomi di uccelli. Il gufo era poi un uccello che popolava la Foresta Nera, dove l'azienda aveva sede. Un'altra versione fa risalire il nome al fatto che l'azienda forniva la colla per un modello di aeroplano denominato proprio Uhu. Qualsiasi sia l'origine, se non lo sapevate già ora potete sorridere a pensare a un gufo dietro a quell'inconfondibile packaging giallo e nero. Potete sorridere al pensiero di un gufo che incolla e che non rimane incollato nella pania!

sabato 14 luglio 2012

Fu Jesus (jeans) il naming più oltraggioso?

In quasi tutti i libri di storia della pubblicità troverete una fotografia che rimanda alle memorabili campagne di Jesus Jeans, un brand che ha fatto epoca, soprattutto per la comunicazione. In italiano il claim recitava “Chi mi ama mi segua” e il visual era abbastanza eloquente, un sedere stile Morositas e un paio di jeans tagliati a rivestire le natiche. In inglese potevamo leggere, sopra quel sedere o all’altezza del giro vita, “Thou shalt not have any other jeans but me” oppure “He who loves me follows me”. Jesus jeans: solo due lettere di differenza tra le due parole, -SU- al posto di -AN-. Credo che questo brand name possa a buon diritto entrare anche nella casistica dei nomi più memorabili, visto che poche aziende si sono spinte così oltre da dare un nome così ingombrante a una marca. Quest’esempio serve per rimandare a un problema non infrequente, cioè il rischio di offendere o urtare determinate sensibilità con operazioni di naming in ambito internazionale: non è difficile inventare un nome che magari in polacco suona come un’imprecazione e/o in giapponese – che ne so – come prostituta. Sono i rischi sempre latenti in ogni operazione di naming, e molto spesso si cerca accuratamente di evitare qualsiasi rimando ad una sfera religiosa. Eppure qui, con Jesus, siamo di fronte a una chiara operazione di provocazione che nasce dal naming stesso (per questo mi stupisce che il caso sia stato studiato più nella storia dell’advertising che in quella del naming), un nome che nella combinazione in allitterazione JE-sus JE-ans si prestava ad una copy strategy unica, di chiara “ispirazione evangelica". Ci fu naming potenzialmente più oltraggioso?

sabato 7 luglio 2012

Chinò. Quando naming, copy strategy e logo giocano di squadra

Estate. Periodo di consumo di varie bevande, non solo di acqua. Ogni tanto ha senso riprendere in mano nomi storici e consolidati, valutarne la tenuta, valutare cosa si può costruire attorno a un nome di prodotto. Allora penso a Chinò San Pellegrino. Il nome è chiaramente ricavato dal nome comune della bevanda chinotto. La troncatura e l'accento danno vita a un nome che, qualche tempo fa, è stato oggetto di una brillante copy strategy, sintetizzata dal pay off "Bevi fuori dal coro". Chiaro a tutti che un pay-off simile trovi conforto e supporto nel nome del prodotto stesso, che si potrebbe leggere anche "Chi no", come a sottolineare che c'è chi beve altre bibite dissetanti di colore scuro. Il logo stesso, con la lettera N specchiata rimarca questo anticonformismo (edonismo?) dei bevitori del chinotto Chinò, la contrapposizione, la forza del "no". La brillante strategia di "posizionamento in opposizione" è poi evidenziata ulteriormente dal colore bianco della parola "fuori" nel pay-off. Riassumendo: c'è chi dice no, c'è chi beve fuori dal coro e si disseta con una bevanda scura dal nome comune "chinotto" e dal nome proprio "Chinò". Credo questo sia un esempio completo di come naming, pay-off, copy strategy e immagine visiva possano concorrere a costruire un posizionamento davvero distintivo nel panorama delle bibite. E poi il chinotto è anche buono...

domenica 1 luglio 2012

Surface, il nome del tablet di Microsoft

A tutti è evidente quale battaglia commerciale si stia giocando sul terreno dei tablet e smartphone. Inevitabilmente, laddove la battaglia si fa più dura, anche il naming sale spesso agli onori della cronaca. Forse recentemente avrete sentito parlare di Surface, il tablet firmato Microsoft. In giro per la rete potrete, come sempre, trovare sostenitori e detrattori del prodotto, sostenitori e detrattori dello stesso naming. Ma non è questo che ci interessa ora. Surface è un nome che resta... alla superficie, rimandando all'aspetto "touch", anche se il tablet è spesso presentato con una - diciamolo? - comoda tastiera che lo accompagna (pigiare le lettere su uno schermo non è ancora tanto agevole come pigiarle su una tastiera, anni di design industriale forse ancora contano!). Curioso che semanticamente si contrapponga a uno dei naming più importanti registrati nel settore dell'informatica, vale a dire quell'Intel che avrete sicuramente visto nel binomio indissolubile di "Intel Inside" nell'adesivo che accompagna i prodotti con microprocessori Intel. In inglese il verbo "surface" significa anche affiorare ed emergere, e questo potrebbe in un certo qual modo rimandare al pop-up delle icone tipico dei tablet. Sur-face ha poi al proprio interno la parola "face" e tutti sanno a quali livelli di popolarità l'abbia portata il social network, anche se non è certo per questo un nome attaccabile. E non è nemmeno un nome che possa generare confusione. Si tratta quindi di un nome abbastanza nuovo per la categoria, nuovo come la mossa che ne contraddistingue il lancio (anche se esiste hardware firmato Microsoft, questo prodotto denota la sempre maggiore volontà di presidiare proprio i territori dell'hardware).

sabato 23 giugno 2012

B(r)and naming. Il nome lungo non ce l'ha fatta...

Spesso si sente dire che il nome dovrebbe essere breve. Ci sono esempi di nomi lunghi che si sono comunque sedimentati (pensiamo ad esempio a Antica Gelateria del Corso). Già mi è capitato di accennare al "band naming", vale a dire al naming di quei particolari brand che sono i gruppi musicali. Penso che nessuno metta in dubbio che i gruppi musicali sono dei veri e propri brand, marche che talvolta occupano una porzione di memoria molto vasta nella vita delle persone, proprio come le loro canzoni. In Italia, ad esempio, c'è stata tutta una stagione in cui era gradito il nome lungo, soprattutto in corrispondenza dello sviluppo di un determinato genere, il progressive. Pensate alle formazioni più importanti di quegli anni, assieme a Le Orme: Banco del Mutuo Soccorso e Premiata Forneria Marconi, i due nomi più lunghi, i veri brand-bandiere del progressive italiano. Entrambi sono ricorsi all'abbreviazione: semplicemente Banco i primi, PFM i secondi. Eppure la lunghezza dei loro nomi originari celava un intero mondo dietro e sotto. Sembra proprio vero che la brevità, il contenimento di un nome dentro le 3, massimo 4 sillabe stia diventando un punto imprescindibile di qualsiasi segno linguistico che poi ambisca a fare il giro del mondo (e queste sono band che hanno girato per il mondo, assieme alla loro musica). Naturalmente non mancano gli esempi dall'estero. Pensate a Emerson Lake and Palmer (ELP), tanto per non cambiare il genere, o ai Godspeed You! Black Emperor (GYBE o GY!BE). Il nome lungo stanca e fatica a sopravvivere, anche se nelle sigle o nelle abbreviazioni rimane un po' dell'odore del nome originario.

venerdì 15 giugno 2012

Omega, il nome del cronometro dell'Olimpiade

Le Olimpiadi estive di Londra 2012 sono alle porte. Avete mai riflettuto sull'importanza del cronometraggio di un'edizione dei giochi, su quali risorse muove e quali esigenze imponga? Qui trovate qualche spunto interessante. Da anni Omega è il nome del tempo olimpico e lega indissolubilmente il proprio brand name e simbolo (l'omonima lettera dell'alfabeto greco) ai record e alle prestazioni dei campioni che si confrontano secondo lo spirito del noto barone De Coubertin. Omega è naturalmente un brand importantissimo, capitalizzato in un segno linguistico e in una lontana scelta di naming, Omega per l'appunto, che ha avuto e ha ragione... del tempo.

La pronuncia è uniforme in quasi tutto il mondo. La presenza della parola suffisso -mega è sicuramente ricca di evocazioni positive. L'emblema costituito della lettera dell'alfabeto e il significato simbolico del nome "Omega" sembrano oggi predestinare l'azienda ad essere il brand di riferimento delle misurazioni dei tempi finali degli atleti alle Olimpiadi. Tutto concorre a dar vita ad una heritage che vuole il brand come "First watch on the moon", indossato a James Bond, e protagonista indiscusso dei più grandi eventi mediatico-sportivi del pianeta. Non è certo il nome in sé che ha concesso questa crescita dell'azienda, però di sicuro un nome così "calibrato" ha aiutato molto, sta aiutando molto, ed è libero di muoversi assieme all'azienda e alla sua crescita... nel tempo. Pensateci, quando liquidate in pochi istanti (il tempo di un record del mondo di Bolt?) la scelta di un nome.

sabato 9 giugno 2012

Olivia & Marino Pavesi: il brand name dal nome proprio di persona (ricordando gli ingredienti!)

Mi è già capitato di parlare altre volte dell'utilizzo del nome proprio di persona in operazioni di naming. Si tratta di una scelta che nasconde motivazioni le più disparate: suscitare simpatia, personalizzare il prodotto, nel senso di dargli carne, un volto addirittura, oppure ricordare un certo lignaggio, se siamo nella realtà di un'azienda dove l'albero genealogico e i patronimici hanno molto peso. Diverso e originale è il caso delle sfoglie Olivia & Marino di Pavesi, azienda che con un'operazione davvero interessante è riuscita a innovare pur rimanendo nel solco della tradizione del naming da nome proprio di persona. Ricorrendo a nomi tutto sommato non molto diffusi (anche se Olivia sappiamo tutti chi è nel mondo dei fumetti e Marino ha avuto momenti di gloria), Pavesi è riuscita a compiere un'operazione duplice: da un lato richiamare la genuinità e il sapore di due ingredienti semplici come l'olio d'oliva e il sale, dall'altro fornire il pretesto per una storia, quella appunto dei volti di Olivia & Marino, i due fornai ripresi nelle confezioni sulla soglia del loro forno. A cerchio, anche l'idea di richiamare l'idea del forno si salda con la volontà di comunicare genuinità.

sabato 2 giugno 2012

Pinterest, il nome "social" del momento

Anche i social networks si alternano a ritmo incessante. Accanto a quelli consolidati ne emergono continuamente di nuovi, in attesa che una sorta di mano darwiniana della rete decreti, come in uno spettacolo di gladiatori, chi sopravvive e magari prospera e chi no (in fin dei conti un "mi piace" su Facebook è, iconograficamente, questione di un pollice retto). Tra gli ultimi arrivati c'è Pinterest, il cui scopo è rafforzare una prassi che già altri social networks hanno favorito, vale a dire l'aggregazione attorno a determinati interessi delle persone. Il nome contiene la parola -interest al suo interno. Con la semplice aggiunta di una P- iniziale (lettera "libera", poi usata da sola come icona alla stregua della "f" di "Facebook" e la "t" di Twitter) si ottiene un nome che ricorda "Pin" (lo spillo, l'appuntare), la "Pinboard" (la lavagnetta a spilli, metafora grafica), persino il "Ping", il suono metallico che ad esempio producono certi software di gestione della posta elettronica per avvisare dell'arrivo di un nuovo messaggio. Le evocazioni alle quali la parola-nome Pinterest rimanda sono tutte coerenti con il posizionamento e il concept molto semplice che sta alla base del funzionamento di questo nuovo prodotto della rete.

giovedì 24 maggio 2012

Intervista sul naming a Radio Monte Carlo, il link del podcast

Martedì 22 maggio la puntata di Si salvi chi può, il programma mattutino di Radio Monte Carlo, si è aperta con una breve intervista sul naming. Per chi volesse qui è disponibile il podcast. Abbiamo parlato brevissimamente di nomi e soprattutto di errori. In effetti al naming ci si pensa spesso quando diventa un errore e anche il suo essere diventato pratica specialistica deve molto al tentativo di ridurre il margine di errore ai minimi termini.

Ringrazio Monica Ghezzi della redazione di Radio Monte Carlo e i conduttori del programma in quella giornata, Erina Martelli e Dario Desi.

sabato 19 maggio 2012

Naming e fonosimbolismo #6: auto piccola nome piccolo, la nuova Seat Mii

Dopo Volkswagen Up ecco un altro nome piccolo destinato ad un'auto piccola (il gruppo automobilistico, tra l'altro, è lo stesso). Mi riferisco alla nuova Seat Mii, la piccola della casa automobilistica di Martorell. Sembra sedimentarsi una tendenza che vuole un nome piccolo (corto) per il brand di queste nuove auto dalle dimensioni assai contenute (pensate anche a Toyota IQ, che pure appartiene ad un altro segmento). Nel caso di Seat Mii, il valore di "piccolezza" è convogliato con il ricorso alla ripetizione della vocale "i", vocale piccola per antonomasia (pensate all'apertura di labbra necessaria per pronunciarla). Quando ho ricevuto il depliant pubblicitario (a volte le idee per i post di questo blog mi vengono a cercare... non sono io che cerco loro!) non ho potuto non pensare anche a Nintendo Wii, un altro nome di cui si è tanto parlato, molto vicino a Mii. Ho pensato anche al possessivo "My" e in rete poi ho trovato che si è già pensato al gioco di parole "My Mii" (in fin dei conti l'identificazione tra auto e possessore, nel caso di queste piccole citycar, è fin troppo evidente). Infine ho pensato che potesse essere un nome simpatico per le persone che amano i gatti. Per concludere ho pensato che in un'auto è più facile trovare un cane rispetto a un gatto. Infine (troppi infine?) ho immaginato che allora un nome del genere potrebbe prestarsi a una pubblicità ironica, con un cagnone dentro quest'auto il cui nome ricorda pure il miagolio... Insomma, il nome può diventare il fulcro di più leve di comunicazione.

sabato 12 maggio 2012

Juventus, Inter, Milan. Quando è meglio evitare un brand naming geografico?

E così la Juventus è tornata a vincere il campionato italiano di calcio. Mi sono già espresso altrove in merito al naming delle squadre, che nell'epoca attuale diventano veri e propri brand internazionali (così come i loro stadi, coinvolti in articolate operazioni di "naming rights", vedi il caso dell'Allianz Arena di Monaco) e il cui indotto va dai diritti tv al merchandising globale della t-shirt con quel numero e quel nome di giocatore. Credo che chiamarsi Juventus, Milan e Inter e non Torino, Milano e Qualcosa+Milano sia stata una buona mossa per queste squadre (anche se un Mourinho che pronuncia "Juventus" un po' storpiato ce l'abbiamo tutti in mente...). Naming opportuni quindi, dapprima nell'ottica del tifo nazionale (nomi di squadra che non identificano troppo con città: perché pochi tifano Fiorentina, Roma, Napoli? Perché Atalanta è un nome che ispira molte persone di sesso femminile con le quali ho potuto scambiare qualche chiacchiera su questi argomenti?) e, in seguito alla trasformazione della piattaforma internazionale del football/soccer business, per il non diretto richiamo a un luogo geografico. Vero che quando il Torino era il Grande Torino raccoglieva simpatie anche in altre parti d'Italia, vero che oggi il Barcellona fa lo stesso. Vero anche che si è sempre "squadra di una città" e che si possono trovare casì interessanti in cui il F.C. Internazionale Milano diventa persino un confusionario "Inter Milan", un nome-derby. Il naming geografico deve prestare molta attenzione, in tutti i settori. Può generare conflitti con altre denominazioni, può essere difficilmente difendibile a lungo termine, può essere troppo vincolante, può essere un minus insomma. In un mondo dove tutto ambisce a diventare brand nei modi anche più sconclusionati (persino il luogo semisconosciuto, il comune di provincia, come se io andassi in giro con una felpa rigorosamente con cerniera con scritto Maserada sul Piave), c'è un importante discorso da farsi sui brand davvero globali. In questi casi, essere liberi da pesanti fardelli geografici può essere d'aiuto, anche se si è una squadra di calcio o hockey su ghiaccio. Insomma, il naming geografico, che ad esempio va molto di moda in un settore squisitamente italiano come quello enologico, non è poi un grande affare, a mio avviso, anche se ovviamente in quello specifico settore si lega a un discorso complesso di "denominazioni geografiche" (Igt, Doc, Docg). Cercheremo di approfondire in futuro questi argomenti controversi.