sabato 22 dicembre 2012

Titolare un libro è un'operazione di naming?

Ne parla proprio oggi, tra l'altro, Mirella Appiotti in copertina di Tuttolibri de La Stampa. Mi riferisco alle operazioni di titolazione dei libri (soprattutto di narrativa). La titolazione di un libro, a maggior ragione oggi che è diventata opera di editor, può essere considerata un'operazione di naming? (Questa è una domanda che pongo io e non Mirella Appiotti.) Credo di sì. Innanzitutto va ricordato che quel complesso rettangolo o quadrato che si chiama "copertina del libro" contiene spesso più livelli di nomi e/o naming: dal nome dell'autore (pensiamo anche ai casi di naming di autori come "Wu Ming" o, in passato, "Liala") al nome dell'editore o il nome di collana (argomento già trattato, visto che la collana aspira ad essere una sorta di marchio-ombrello dove ospitare le varie perle). Ma la titolazione di un romanzo in sé è un'operazione di naming? Dicevo che a tutti gli effetti può considerarsi tale, dal momento che il titolo viene a rappresentare il nome del prodotto-libro, una sorta di promessa, un'evocazione, la possibilità di intesa istantanea con un ipotetico lettore (forse ha statisticamente più senso scrivere con un'ipotetica lettrice). Insomma, gli editor sono diventati gli operatori di naming del sistema editoriale. Il tema è tornato alla ribalta con il best-seller di Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi, che inizialmente pare non dovesse riportare questo titolo. Dato il successo del libro, in molti si sono interrogati se un ingrediente importante dell'impennata di vendite potesse essere ricercato anche in quel titolo inconsueto (a inaugurare una stagione di simili occhiute copertine invece ci hanno pensato, senza troppa esitazione, i grafici editoriali). Come il naming dei prodotti per il supermercato, anche la titolazione di un romanzo non è una scienza, ma aspira a diventare qualcosa di replicabile, analizzabile, quasi standardizzabile, a maggior ragione per il lancio di un esordiente. Detto in altre parole, un espediente per ridurre il rischio e, simultaneamente, una leva di marketing. Quando si pubblica un libro di Camilleri forse, da parte degli editor e dell'editore, c'è maggiore rilassatezza sul titolo: lì il nome che conta è un altro.

sabato 15 dicembre 2012

Il naming per un partito politico

La situazione politica italiana di questi giorni, a dir poco confusa e confusionaria, ci lascia supporre che qualche nuovo nome (intendo "nome di formazione", non certo di politici di peso!) s'affaccerà da qui alle prossime elezioni. E forse, lo possiamo già dire, non esiste terra più desolata di quella dei nomi dei partiti e della politica, un'aridità che poi inevitabilmente si riverbera in quel pastone illeggibile che è la cronaca politica dei quotidiani italiani. Individuiamo, alla rinfusa, alcune tendenze e linee di sviluppo della problematica del naming in politica (magari un giorno, chissà quanto lontano, una formazione un po' nuova si potrà riconoscere anche dal nome che adotterà).

1. Spesso ricorre la parola "Italia" all'interno della denominazione e questo è forse un pleonasmo, anche se può essere visto in contrapposizione ai movimenti localistici che utilizzano un punto cardinale nella loro denominazione. Resta di fatto che non è più un fattore distintivo.
2. Alcuni ricorrono ancora alla parola "partito", ad altri forse suona vecchia e di apparato.
3. Bisogna fare attenzione alle inevitabili abbreviazioni in sigle, visto che due tra i partiti maggiori differiscono, nella loro denominazione in sigla, per una lettera L soltanto (non è il massimo). 
4. Alcuni soffrono di una certa ambiguità. Ricorrono (alberoniamente?) alla parola "movimento" per marcare un distacco dai partiti tradizionali, ma prendono sempre più, almeno nel linguaggio giornalistico, anche il nome "diminutivo" estivo-canterino dal loro leader.
5. Una grande innovazione nel naming partitico degli ultimi decenni fu forse quella, banale e continentale, ma inedita e probabilmente efficace per orientare la grande fetta degli indecisi, di ricorrere al nome di un colore per nominare una formazione "trasversale" (anche se il colore è sempre stato un codice distintivo di tanti partiti e/o movimenti, poche volte il colore era diventato nome). Forse da allora il mondo è meno verde, ma questo è un altro discorso.
6. Che il successo di certi movimenti localistici si possa imputare, banalmente, anche al ripescaggio di parole come "liga" o "lega" che hanno una lunga tradizione in Italia?
7. Alcune parole come "libertà" tendono a svuotarsi, a causa dell'appropriazione congiunta su più fronti (pensiamo ad esempio a FLI, SEL e al PdL) o a trasformarsi in inquietanti plurali nel discorso politico; lo stesso può valere per un'altra parola come "alleanza".
8. Altra domanda che talvolta mi faccio: che il sogno proibito di tutti i partiti sia trovare/replicare un naming come "Democrazia Cristiana"? C'è chi prova con una U davanti, in sigla, ma non è la stessa cosa (e lo sanno loro stessi per primi).
9. Di fondo si registra una grande instabilità dei nomi e una massiccia stabilità delle facce. I nomi nuovi delle formazioni fanno notizia soltanto perché sono "nomi di nuove notizie". Un nome come "Ulivo" (senza esprimere alcun giudizio di valore) era per certi aspetti innovativo, soltanto un po'... statico, anche se è vero che i poveri ulivi vengono espiantati dalle loro bellissime terre per popolare anche i volgari giardini del nord.
10. In sostanza, finora quasi nessuno si è distinto per una denominazione originale, che sapesse differenziarsi, essere memorabile e comunicativa ad un tempo, essere pure rispettosa di un programma e degli elettori. I partiti saranno anche andati a lezione di marketing (e su certi aspetti lo notiamo) ma al contempo bisogna dire ai loro professori che è mancata una lezione sul naming.

Che lo specchio migliore della nostra situazione politica siano i nomi che saranno stampati sulla prossima scheda elettorale? Forse non lo specchio migliore, ma semplicemente uno specchio.

domenica 9 dicembre 2012

Naming con una sigla: alcune note sul caso di LG

LG è una marca che si è resa protagonista, alcuni anni fa, di una rapida ascesa mondiale. Vent'anni fa, per restare in Italia, pochi conoscevano questo brand coreano. Poi, tra monitor di pc, condizionatori, TV, lettori DVD o telefonini in molti hanno iniziato a familiarizzare con questo nome e con il suo logo. Un nome semplicissimo, due lettere, due consonanti che formano una sigla. Se da un lato converrete che si tratta di un nome facile da ricordare, dall'altro concorderete con simile convinzione che non è certo un nome in sé memorabile. Facilità di ricordo e memorabilità non vanno a braccetto nel caso dei nomi e nel caso delle sigle ("Quattro salti in padella" è forse il caso di nome memorabile ma non facilissimo da ricordare se non supportato da adeguata comunicazione pubblicitaria). Ancora una volta ci troviamo davanti ad una sigla e alla sua presunta neutralità. Quello che questo caso dimostra benissimo ancora una volta è che il brand name è un asset "flessibile" che si può (anzi, si deve) "gestire", plasmare, persino piegare e modellare. Il nome va gestito, non è dato banalmente una volta per tutte e va gestito alla pari di altri asset aziendali. Se quelle due consonanti da un lato davano vita a un nome forse sin troppo neutro, privo di valori-suoni potenzialmente negativi sin dal certificato di nascita (la qual cosa è importantissima per un brand globale come LG), dall'altro non davano certo vita a un nome particolarmente emozionante o evocativo. Che simili pensieri fossero all'ordine del giorno in azienda, quando il nome LG fu collocato in quel logo emoticon sorridente e legato a quel semplice ed efficace pay-off ottimista "Life's Good"? Nel pay-off che unisce "Life" e "Good" è evidente il gioco con le iniziali L e G. Il caso LG è particolarmente istruttivo nell'ambito del naming. Se da un lato ribadisce una certa neutralità e freddezza dei nomi-sigla, dall'altro dimostra come un nome-sigla possa essere "suonato" secondo un dato spartito e veicolato all'interno di valori di positività e ottimismo che sono alla base della comunicazione, in tutto l'universo di prodotti dove LG è presente. Ribadisce poi un concetto chiave, quale quello del dialogo e rimando costante tra nome, logo e pay-off. Quel che ne ricaviamo è la necessità di un approccio olistico alla marca e alla sua vitalità.

sabato 1 dicembre 2012

Naming in letteratura o nella scienza? Dai personaggi della fiction alle particelle di Joyce

Leggendo un libro vi sarà capitato di pensare che un nome di un personaggio era particolarmente azzeccato. Vi sarà pure capitato di pensare l'esatto contrario. Oppure vi sarete interrogati sul processo che porta un autore di un racconto o di un romanzo a dare un determinato nome al personaggio, oppure un diminutivo. Nella letteratura italiana registriamo persino un celeberrimo caso di re-naming, quello di Renzo de I promessi sposi, inizialmente chiamato Fermo da Manzoni. I nomi dei personaggi dei libri non sono prodotti in sé (anche se talvolta tendono a trasformarsi in simil-brand o a prestare la parola per operazioni di naming). Ai nostri fini è però comunque interessante contemplare cosa accade nelle fatiche di scrittura di un autore alle prese con i nomi dei propri personaggi, quale iceberg di un continente sommerso possa rappresentare la scelta di un determinato nome per un protagonista, per un personaggio secondario, per una comparsa. Alastair Fowler al tema dedica pure un libro di cui vedete la copertina. Il testo che accompagna Literary Names: Personal Names in English Literature recita:

Why do authors use pseudonyms and pen-names, or ingeniously hide names in their work with acrostics and anagrams? How has the range of permissible given names changed and how is this reflected in literature? Why do some characters remain mysteriously nameless? In this rich and learned book, Alastair Fowler explores the use of names in literature of all periods - primarily English but also Latin, Greek, French, and Italian - casting an unusual and rewarding light on the work of literature itself. He traces the history of names through Homer, Spenser, Shakespeare, Milton, Thackeray, Dickens, Joyce, and Nabokov, showing how names often turn out to be the thematic focus. Fowler shows that the associations of names, at first limited, become increasingly salient and sophisticated as literature itself develops.

Il tema è utile anche per ricordare un aspetto tutt'altro che secondario: quanti nomi di prodotti, brand e azienda hanno fornito i repertori della letteratura, dell'arte, della religione e soprattutto della mitologia?

E per nominare i progressi della scienza? Si tratta di un altro capitolo fondamentale del naming, anche se assai lontano dai prodotti che si vendono al supermercato, ma magari non lontanissimo dalle molecole che vengono nominate in farmacia.  La particella "quark", ad esempio, si chiama così grazie alla penna di James Joyce e a un passo del suo Finnegans Wake. E poi ci sono le ben note "Dolly" dalla prosperosa cantante Dolly Parton e "Lucy" dai Beatles. I paleoantropologi scopritori dei fossili di homo floresiensis intendevano utilizzare, almeno informalmente, il termine "Hobbit" per questa loro importante scoperta. Sembra che i detentori dei diritti cinematografici dell'opera di Tolkien abbiano fatto tuonare la loro diffida. Il risultato? Marcia indietro. Chissà quale nome definitivo prenderà questa scoperta paleoantropologica...