lunedì 23 dicembre 2013

Wiko, dalla Francia un nuovo nome tra i telefoni

Arriva dalla Francia un nuovo brand name nel mercato della telefonia cellulare. L'azienda è pronta infatti per arrivare con i propri prodotti, smartphone e feature phone, sul mercato italiano. I consumatori potranno presto sbizzarrirsi a testarne le caratteristiche. A noi non resta che valutare questo nuovo nome: Wiko. A primo impatto ricorda molto "wiki" e "Wikipedia". In un secondo momento, vengono in mente "wi-fi" per la prima sillaba del nome e qualcosa che potrebbe riguardare la "comunicazione" con la sillaba finale "ko". Il vero dubbio sorge sulla pronuncia, soprattutto sulla prima sillaba. Prenderà dalla pronuncia italiana di "Wikipedia" (ma la stessa Wikipedia presenta in italiano un potpourri di pronunce)? Prenderà dalla pronuncia della prima sillaba di "wi-fi"? Qual è l'univoca pronuncia del nome Wiko? In questi casi, per togliersi i dubbi di pronuncia, non resta che ascoltare la comunicazione ufficiale prodotta dall'azienda stessa.

lunedì 16 dicembre 2013

Intervista con Licia Corbolante. Di terminologia, naming e altre cose di lingua

Oggi torno a intervistare. Dopo la serie di colloqui con chi si occupa espressamente di naming risalente a qualche tempo fa, mi intrattengo ora con Licia Corbolante, che di mestiere fa la... terminologa. Posso immaginare facce strane. Eppure questo mestiere, che come scopriremo presenta delle affinità polpose con il naming, si trova normalmente in aziende come Microsoft, con cui la nostra intervistata ha collaborato a lungo. Nelle risposte che seguono potremo scoprire le intersezioni tra discipline solo apparentemente lontane come la linguistica e il marketing (del resto il nostro naming ne è un esempio abbastanza rilevante) e parleremo di naming con una persona che anche nel suo blog denominato Terminologia etc. dimostra un'attenzione costante e rara verso le più singolari - ma anche comuni - manifestazioni e bizzarrie delle lingue.
 
D: Chi ha imparato a conoscerti, magari anche dai commenti sempre ricchi che lasci in questo blog, si sarà chiesto dove nasce il tuo singolare lavoro e la tua singolare carriera che ti consente oggi di cogliere al volo aspetti linguistici importanti legati alla vita di ogni giorno. Ci racconti brevemente cosa hai studiato e le tue principali occupazioni sino a oggi?
R: Ho studiato traduzione alla SSLMIT di Trieste; subito dopo essermi laureata con una tesi sugli aspetti culturali della traduzione ho lavorato come lettrice e poi docente di traduzione nel dipartimento di italiano della University of Salford, in Inghilterra, dove mi sono specializzata in linguistica applicata e marketing. Dopo la parentesi inglese è incominciata una lunga carriera in Microsoft, nell’ambito della localizzazione (il processo di traduzione e adattamento di software e altri contenuti digitali per un mercato specifico); ho iniziato come Italian language specialist a Dublino, dove mi occupavo di tutti gli aspetti della qualità linguistica e “culturale” del prodotti. Dopo sei anni in Irlanda mi sono trasferita a Milano e mentre si evolvevano i processi di localizzazione, ho ampliato le mie competenze e sono diventata terminologa, un’attività che comporta estrazione terminologica in inglese (lingua 1) e in italiano (lingua 2), gestione e manutenzione di database terminologici con creazione di voci e definizioni e soprattutto un’intensa attività di ricerca in entrambe le lingue. Nel 2009 è terminata la mia collaborazione con Microsoft e da allora opero indipendentemente sia nell’ambito della localizzazione che anche in altri settori tecnici, sempre però con la coppia di lingue inglese e italiano.

D: Linguistica e marketing sembrano incrociare perfettamente nel naming. Eppure sono molti i punti in cui gli aspetti verbali e terminologici intercettano il marketing. Potresti approfondire quelli salienti?
R: Nel marketing vengono identificati i fattori che influenzano il comportamento del consumatore, ad esempio culturali, sociali, personali, demografici e psicologici, in modo da sviluppare le strategie più idonee al proprio mercato, che però non sempre sono adeguate anche in altri paesi o a livello globale. Gli esperti linguistici, tra cui traduttori e terminologi che operano in più lingue e hanno acquisito specifiche competenze interculturali, possono contribuire a definire modelli culturali di riferimento, fornire analisi sociolinguistiche e identificare gli aspetti verbali e visuali che influenzano preferenze, percezioni e aspettative per il prodotto nella loro cultura. La collaborazione tra esperti linguistici e interculturali e i responsabili del marketing consente di identificare le strategie per il prodotto in lingue e mercati diversi e di indicare le linee guida per l’adattamento e la presentazione, che includono esempi, convenzioni, stile, registro e scelte terminologiche, spesso molto diversi da una lingua all’altra.

D: "Terminologa". Sembra una brutta parola. Eppure si nasconde un lavoro che conduci con passione invidiabile. In che cosa consiste ora la tua carriera di terminologa indipendente, dopo la lunga parentesi in Microsoft?
R:Il terminologo si occupa delle attività di gestione e ricerca a cui ho accennato prima, nel mio caso anche in campi non strettamente informatici. Oltre a fornire diversi tipi di consulenze linguistiche, ho operato anche in un ambito lessicografico con la revisione delle voci di informatica del Dizionario inglese-italiano Ragazzini (Zanichelli), e faccio parte di un gruppo di lavoro UNI che recentemente ha pubblicato una norma sulla scrittura professionale. Un aspetto del mio lavoro che ho potuto sviluppare in questi anni e che mi dà molta soddisfazione è la formazione terminologica a livello aziendale, universitario e anche in istituzioni europee. Queste attività si riflettono nel mio blog, nato per condividere considerazioni, esperienze e competenze in ambito terminologico, un settore in cui per l’italiano non c’è molta divulgazione, se non a livello accademico; spesso propongo esempi tratti dai media, da pubblicità o altro materiale disponibile online che sono una rielaborazione di esempi reali osservati o affrontati in progetti terminologici. 

D: Andiamo diretti al naming. Si tratta di qualcosa che segui per ovvi motivi professionali e collaterali oppure il naming ha investito parentesi importanti della tua attività passata o attuale?
R: Ho cominciato a occuparmi di naming durante alcune attività del ciclo di vita del software e di servizi online, in inglese conosciute con vari nomi tra cui cultural review, cultural customization assessment, cultural check, globalization review. Sono valutazioni di immagini, messaggi non verbali e nomi di prodotti o servizi destinati a rimanere in inglese in tutti i mercati e che vengono analizzati per verificare che siano accettabili in mercati diversi e che lo stesso tipo di comunicazione del prodotto originale sia mantenuto senza dover intervenire con traduzioni o adattamento. Non si tratta quindi di proporre nomi ma di identificare quelli che sono improponibili in contesti diversi da quelli in cui sono nati, come poteva essere l’ormai famigerato Inkulator. In Microsoft avevo sviluppato e coordinato il sistema di valutazione per tutte le lingue, poi presentato anche in alcuni convegni, e ho appena consegnato un mio contributo intitolato Cultural Competencies in Globalization per un volume sulla localizzazione curato da un’università statunitense.
Continuo a occuparmi di un aspetto particolare dei nomi in inglese, il punto di vista della seconda lingua o E2, rilevante in tutti i contesti dove l’inglese è usato come una lingua franca o veicolare, senza che sia la madrelingua né di chi produce né di chi consuma un prodotto o servizio. È uno scenario molto comune in Europa, un mercato per il quale anche le aziende italiane ricorrono spesso a nomi inglesi; in questo caso le analisi linguistiche, in collaborazione se necessario con colleghi di altre lingue, possono includere considerazioni sulla riconoscibilità delle parole, eventuali difficoltà di pronuncia e memorizzazione e associazioni o interpretazioni indesiderate causate da interferenze della propria lingua (nel mio blog ci sono vari esempi, tra cui s·nowhere o snow·here, una questione di E2? e Android KitKat).

D: C'è qualche naming che ti ha colpito negli ultimi tempi? Se sì, per quale motivo?
R: Non è nuovo e non ha a che fare con l’informatica o altre tecnologie, ma continua a piacermi molto Libelle, un cracker di Barilla. È facile da ricordare, suona molto gradevole ed è familiare, come se esistesse da sempre. Le associazioni sono tutte positive, in particolare vengono richiamati l’aggettivo bello e il sostantivo libellule, insetti eleganti e leggiadri (e forse, per chi conosce solo qualche parola di tedesco, anche la parola Liebe, “amore”?). Gli aspetti fonosimbolici sono evidenti: tutte le vocali sono anteriori e così possono suggerire sottigliezza e leggerezza. Il payoff Croccanti e leggere sottolinea la levità ma la accompagna con un aggettivo corposo che aggiunge gusto e sostanza.
Sempre in campo alimentare, ma per il motivo opposto e per divertimento, raccolgo segnalazioni di nomi di prodotti “italianeggianti” che risultano accattivanti solo all’estero, come ad esempio Flatizza, Pastachetti, Soffatelli e Pizzaghetti, per non citare i nomi di alcune varietà di caffè Nespresso e di alcune marche del supermercato LIDL.

D: In questo periodo avaro di lavoro, quali nuove interessanti figure professionali intravedi per chi intraprende un percorso che abbraccia linguistica, marketing e aspetti della traduzione?
R:Il periodo non è dei migliorie l’attenzione per la qualità linguistica ne risente, ma mi sembra che anche in Italia, seppure con notevole ritardo rispetto ad altri paesi come la Germania e la Svizzera, si cominci a capire l’importanza della gestione sistematica della terminologia, quindi potrebbero esserci sbocchi interessanti per aspiranti terminologi. Se però dovessi scegliere ora un percorso di studi, sarei meno attratta da una formazione linguistica tradizionale e preferirei invece discipline che uniscono tecnologia e lingua, come la linguistica computazionale, l’informatica umanistica o la linguistica forense, usata in attività investigative.

D: Vorrei concludere con qualche indicazione di approfondimento, oltre al tuo blog che ho ricordato. Ci puoi dare qualche consiglio di lettura (blog, riviste, libri, video)? Grazie.
R: Sono molti i libri interessanti ed è difficile scegliere, però tre titoli recenti che non dovrebbero mancare nella propria libreria sono il Dizionario di stile e scrittura di Marina Beltramo e Maria Teresa Nesci (solo su carta), il Dizionario Analogico della Lingua Italiana di Donata Feroldi ed Elena Dal Pra (carta e digitale) e Lavoro, dunque scrivo! di Luisa Carrada, un manuale di scrittura che si legge tutto d’un fiato (carta e digitale). Ci sono vari titoli utili anche tra i manualetti di linguistica dell’editore Carocci. E per i language geek, come mi sono vista descrivere io, l’Enciclopedia dell’Italiano Treccani (consultabile anche online, ma sfogliare le pagine è tutta un’altra cosa!).
Su Internet, sempre molto interessanti gli Speciali di lingua italiana del Portale Treccani; tra i blog linguistici italiani, escludendo quelli più noti di scrittura, comunicazione e traduzione, segnalo parole, del linguista Michele Cortelazzo, e un altro blog scoperto da poco che pare promettente, Non lo dire mai!, a cura di due studentesse di linguistica; mi incuriosiscono anchele sperimentazioni di Scritture brevi raccolte su Twitter da Francesca Chiusaroli. Sul naming ho imparato molto dal tuo blog, da quello di Linda Liguori e in inglese da Fritinancy.
Alla radio, imperdibile la trasmissione di Radio 3 La lingua batte, che ascolto in podcast.

lunedì 9 dicembre 2013

Renzi. Matteo, appunto.

Pensavo al successo di Matteo Renzi alle primarie del PD. L'uomo "nuovo", il politico che dà l'impressione del nuovo e su cui in molti ripongono la fiducia di un obamiano cambiamento, il sindaco che ha sbaragliato la concorrenza di Cuperlo e Civati ieri, presenta forse un alleato insospettabile nel proprio nome. Non trovate? Non tanto nel cognome. Intendo proprio nel suo nome: Matteo. Pensateci un po'. Quanti politici "vecchia guardia" vi vengono in mente che si chiamano Matteo? A me pochi. Magari ce ne sono molti, ma di primo acchito a me ne vengono in mente pochi per non dire nessuno. Vorrei trovare il modo di approfondire questa sensazione. Matteo è poi un nome "giovane". Se si potesse attingere agilmente alle statistiche, credo che tale nome rinvierebbe agli anni 70 e 80, gli anni delle generazioni X. Non ho mai conosciuto uomini di nome Matteo della generazione di mio padre e mia madre. So che esistono, ma a me non vengono in mente. Magari la sensazione di nuovo che questo candidato ha comunicato aveva un valido e insospettabile alleato persino nel nome proprio di persona Matteo e nella sua rarità nel panorama politico attuale. Pensate se Renzi si fosse chiamato Massimo. Non sarebbe stato il... massimo. Lui direbbe probabilmente che il nome proprio non conta e non fa la differenza e che contano le idee. Ma secondo me avrebbe funzionato meno. Potenza (e misteri) del naming...

martedì 3 dicembre 2013

Il nome del panino. McItaly, 100% italiano tranne che nel nome

Anche i panini sono brand. McDonald's ha fatto scuola, timidamente Autogrill con i suoi "Capri" e "Vesuvio" fa qualcosa di simile. E nel paese del furbo slow food il fast food deve adeguarsi. E dopo i panini griffati da Gualtiero Marchesi (insuccesso?), ecco il panino McItaly, presentato con il patrocinio del Ministero delle politiche agricole. Per chi l'ha visto, lo spot televisivo appare come un concentrato di stereotipi di italianità: il borgo bellino dell'Italia, aria aperta, vita in campagna, parlate locali, fieno girato con la forca e altre "bucolicità". Non sono contro e non boicotto i fast food e se proprio devo dirla tutta capisco quasi meglio le ragioni del fast rispetto a quelle dello slow. Ma non voglio aprire parentesi immense, che toccherebbero livelli e sensibilità plurime, interessi economici notevoli e tutto all'insegna del "food" che è davvero la sola cosa che ci interessa, in fondo, e che interessa davvero ogni animale. Dico solo che in tempi ostili per l'Italia, la famosa "dieta mediterranea", se esiste ancora, andrebbe quasi messa a bilancio come voce in attivo e andrebbe riconosciuta quantomeno ad un livello europeo, da quei paesi dove il consumo di carne è notevole. Ultimamente, dopo l'azione del cinema, anche gli organi di stampa internazionali, forse con tacito assenso dell'OMS, hanno iniziato a prendere di mira tale consumo massiccio per scovare le falle degli odierni sistemi di allevamento (uso di farmaci, inquinamento, impatto ambientale). Insomma, questa dieta andrebbe riconosciuta nel suo valore "economico" globale e non imbalsamata dentro pratiche simil slow food. Tutto qui.

Ma torniamo al nome del panino: McItaly. Forse l'unica cosa che avrebbe potuto e dovuto fare il Ministero è opporsi, o almeno storcere il naso, davanti a una denominazione del genere. McItaly è il classico naming di multinazionale alla Nestlè o Danone, con un prefisso posto a garanzia (in questo caso il prefisso Mc-). Il nome interpreta al meglio il motto "think globally, act locally" fatto proprio da una multinazionale dell'alimentazione, ma in realtà si limita a brandizzare sotto il proprio cappello nientemeno che un intero paese-brand, che tra l'altro in questi anni presenta notevoli criticità e pochi asset favorevoli (uno è appunto quello del "food"). Da un punto di vista di naming questo nome pare azzeccato, sembra posizionare abbastanza bene la "promessa" del prodotto 100% italiano. Eppure, a ben vedere, siamo arrivati al paradosso del panino 100% italiano, tranne che nel nome. Segno che l'anima di questo panino non è qui. I "Vesuvio" e i "Capri" di Autogrill, coi loro timidi nomi geografici, rischiano di apparire più italiani, anche se magari sono confezionati con prosciutti di importazione. Una multinazionale dovrebbe stare molto attenta a non vanificare gli sforzi e gli investimenti di comunicazione. E visto che anche il naming è comunicazione, nel nome McItaly a mio avviso risiede un errore strategico non trascurabile.